La tragica vicenda di Cagliari impressionò moltissimo Bettino Craxi. Cagliari, presidente dell’Eni, un colosso dell’industria pubblica, aveva 67 anni quando si suicidò in carcere dove era stato recluso per 133 giorni. Erano state respinte cinque richieste di scarcerazione e la sesta doveva essere esaminata, al momento della sua morte, dal giudice delle indagini preliminari. Cagliari ammise le sue responsabilità, ma non accettò la chiamata in “correo” di altri, tipica dei regimi inquisitori.
La lettera che Cagliari scrisse alla moglie prima di uccidersi aveva colpito Craxi:
Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto. Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare, né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta d’identità e comunque assiduamente controllato….Ma come sapete i motivi di questo infierire sono altri e ci vengono anche ripetutamente detti dagli stessi magistrati, seppure con il divieto assoluto di essere messi a verbale, come invece si dovrebbe fare regolarmente……………….
Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi dell’opinione pubblica per il solo fatto di essere inquisito, o peggio, essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di collaborazione che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendono infido, inattendibile e inaffidabile; e che diventi cioè quello che loro chiamano un infame.
Infine Cagliari concludeva, annunciando il suo suicidio
Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia. Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo la strada che porta allo stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere.”
L’estate del ’92 fu contrassegnata da suicidi, otto in pochi mesi, ma più di una quarantina nei due anni “orribili” (1992-1993). Raul Gardini, uno degli esponenti di spicco dell’industria italiana, fu uno di questi. Il 2 settembre del 1992 si tolse la vita a Brescia Sergio Moroni, deputato socialista di quarantacinque anni, sparandosi in bocca con un fucile da caccia. Si suicidò nella cantina del condominio dove abitava con la moglie e la figlia. Aveva ricevuto due avvisi di garanzia. Prima di uccidersi aveva scritto al Presidente della Camera Giorgio Napolitano una lettera breve e drammatica in cui riconosceva che bisognava cambiare, ma nello stesso tempo non era possibile accettare un processo “sommario e violento”, indegno di un paese civile.
Uno dei primi processati e condannati fu Walter Armanini, socialista e assessore a Milano. Il suo processo fu trasmesso in diretta con l’assenso del pretore, nella trasmissione “Un giorno in pretura”. Armanini protestò, parlò del disonore che ne sarebbe derivato per la sua famiglia, ma tutto fu inutile, il circo mediatico-giudiziario aveva bisogno del suo spettacolo. Umberto Eco su «L’Espresso» scrisse che se gli fosse capitato di essere «trascinato in un dibattimento ripreso in televisione» si sarebbe dichiarato «prigioniero politico».
Il Governo Amato tamponò la crisi, ma i partiti, sconvolti dal vortice di “Mani pulite”, non potevano pensare al futuro, anzi per salvarsi erano impegnati in una delle più grandi operazioni trasformistiche della storia d’Italia, con cambio di nomi e sigle.
All’inizio del 1993, giunsero gli avvisi di garanzia per Forlani e Andreotti, che fu accusato a Palermo di avere avuto rapporti con ambienti mafiosi. Per affrontare il processo rinunciò all’immunità parlamentare. Dopo una decina d’anni ne uscì assolto, come altri casi meno clamorosi.
Il 25 dicembre 1992 arrivò il primo avviso di garanzia per Bettino Craxi, poi fra gennaio e febbraio del 1993, ne arrivarono altri tre. Al primo avviso si levarono grida di giubilo in sala stampa, come ha scritto Goffredo Buccini «Nessuna notizia produsse mai gli effetti di quel giorno di dicembre, abiura sonora ad ogni garanzia di terzietà: perché tutta l’inchiesta, sino ad allora, era stata un inseguimento al vero bersaglio, Craxi; e perché cronisti e magistrati erano stati troppo vicini, in prossimità anche emotiva che è perfettamente umana, ma può finire col confondere pericolosamente gli spiriti» (G. Buccini, Una storia che ora è giusto rileggere (ma per intero), in «Corriere della Sera», 19 gennaio 2020, p.9).
E l’11 febbraio del 1993 Craxi si dimise da segretario del PSI, il partito che aveva guidato per oltre 16 anni e che ormai era sconvolto e travolto.
Alcuni ministri del governo Amato, come si è detto, furono coinvolti nelle inchieste, dimettendosi uno dopo l’altro: Martelli, Goria, Reviglio, Fontana, De Lorenzo. Le indagini della magistratura per i reati di concussione e ricettazione andavano avanti con una prassi “inedita” di esternazioni e fughe di notizie che finivano sui giornali, ma anche con continue incarcerazioni. L’uso politico della giustizia divenne sempre più evidente perché l’offensiva giustizialista mirava a colpire principalmente i partiti di governo, paralizzandoli e sconvolgendoli, a partire dai vertici delle segreterie, secondo l’assunto che “non potevano non sapere”. Solo per il PDS, ormai sostenitore aperto dell’azione di “Mani pulite”, i magistrati si fermarono a incriminare figure minori, non investendo la classe dirigente nazionale, come invece fu fatto per gli altri. Altrettanto evidente fu il comportamento di “riguardo” verso quei gruppi industriali che possedevano quote rilevanti nella proprietà della grande stampa dal «Corriere della Sera» a «La Repubblica».
Pezzi importanti del “terzo potere”, le Procure, appunto, a partire da quella di Milano, vivevano in simbiosi col “quarto potere” con conseguenze disastrose per l’equilibrio fra i poteri e lo Stato di diritto. Il principio di “non colpevolezza” sino al processo, sancito dalla Costituzione, veniva stravolto.
Si creò un circolo vizioso tra le procure e gli organi di informazione, senza alcun riguardo per i diritti individuali degli accusati e con un uso esteso della carcerazione preventiva. Un avviso di garanzia in prima pagina era già una condanna. In nessun paese civile, sino ad allora, pur in presenza di fenomeni di corruzione politica, si era arrivati a stravolgere l’intero sistema politico. In Germania anche il cancelliere Helmut Kohl fu condannato per finanziamento illecito al suo partito, ma non ci fu nulla di paragonabile a ciò che accadde in Italia.
Il governo Amato pur avendo operato con efficacia, fu travolto proprio nel tentativo di arginare l’offensiva giustizialista nell’aprile del 1993. Inoltre, se è vero che tutti i partiti furono colpiti, il trattamento riservato a Craxi non fu parimenti applicato agli altri segretari di partito, che, come il leader socialista, “non potevano non sapere”.
Il Ministro della Giustizia, Giovanni Conso, uno stimato magistrato succeduto a Martelli, indagato, presentò un decreto per attenuare gli effetti penali del finanziamento illegale dei partiti. Leggi di amnistia per il finanziamento illegale dei partiti erano state votate nel 1986 e nel 1990. Il “decreto Conso” non si limitava a depenalizzare le violazioni dell’articolo 7 della legge sul finanziamento pubblico dei partiti del 1974, ma introduceva una nuova disciplina di finanziamento dei partiti secondo il collaudato modello tedesco, cioè attraverso fondazioni con bilanci trasparenti. Il Presidente Scalfaro, che pur si era dichiarato in accordo al provvedimento, davanti all’ “insorgenza” della Procura di Milano che, con le televisioni schierate, manifestò il suo rifiuto, negò la controfirma al decreto elaborato dal Ministro della Giustizia Conso. Era il segnale che le istituzioni erano in conflitto fra di loro e che la politica era incapace di reagire. Una chiara sfida alle istituzioni si era già consumata nel febbraio del 1993, quando, su ordine della Procura della Repubblica di Milano, la Guardia di Finanza entrò negli uffici della Camera per farsi consegnare il bilancio del PSI, già pubblicato nella “Gazzetta Ufficiale”. Il Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, reagì indignato per “la maniera irrituale” e a nome della segreteria della Camera contestò “l’irritualità e l’incomprensibilità di tale passo ufficiale”. Tuttavia Napolitano si trovò isolato, mentre fu dato risalto alle dichiarazioni del procuratore Francesco Saverio Borrelli che giustificò la richiesta.
Solo Bettino Craxi, intervenendo alla Camera tra il luglio 1992 e l’agosto del 1993, tentò di prendere di petto, senza ipocrisia, il problema storico del finanziamento illecito della politica che aveva reso sistematica la corruzione.
Il 22 aprile il Governo Amato, con sette ministri dimissionari, e dopo la vittoria del referendum che modificò in senso maggioritario anche l’elezione del Senato, si dimise. Il 28 aprile Carlo Azeglio Ciampi, ex-governatore della Banca d’Italia e primo Presidente del Consiglio non parlamentare nella storia della Repubblica, formò un nuovo governo. Ottenne la fiducia alla Camera con 309 voti favorevoli (DC, PSI, PSDI e PLI), 185 astenuti (PDS, Lega Nord, PRI e Verdi) e 60 contrari (MSI, e Rifondazione comunista). Un “governo tecnico” a cui altri seguirono, peraltro con ministri scelti fra personalità indicate dai partiti (o ciò che ne restava), compreso il PDS.
Il 29 aprile, la Camera dei deputati, a scrutinio segreto, votò per quattro volte contro le richieste di autorizzazione a procedere avanzate dalla Procura di Milano nei confronti dell’ex segretario del PSI, Bettino Craxi. Fu l’ultimo atto di orgoglio di una classe politica screditata e impaurita al punto di rinunciare alle immunità, di cui si era abusato, ma che avevano una ragion d’essere costituzionale. Quando però la Camera, come si è detto, respinse le richieste di autorizzazione a procedere avanzate nei confronti di Bettino Craxi, i ministri designati del PDS, Augusto Barbera, Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer, e il verde Francesco Rutelli si dimisero.
Il paese era spaccato, con il partito di Occhetto pronto a mobilitare la piazza per chiudere la partita storica con i socialisti ed in particolare con Bettino Craxi, che con ogni evidenza costituiva il bersaglio più ambito. Specialmente dopo che il 18 aprile il referendum sull’abrogazione della legge elettorale per il Senato fu vinto largamente con l’82,7% di voti.
Il 30 aprile, si tenga presente la cronologia, Bettino Craxi, che si era rifiutato di uscire dal retro dell’Hotel Raphaël, dove era solito alloggiare, fu contestato con un lancio di monetine ed altri oggetti contundenti da qualche centinaio di manifestanti.
Se fra loro ci fossero, insieme con i post comunisti anche dei leghisti e dei nostalgici del fascismo, nulla cambia perché si trattava di violenti che sentivano il vento in poppa del “giustizialismo” che aveva trovato in Craxi il suo capro espiatorio. Come ha scritto Giovanni Orsina, quell’atto era emblematico di una crisi pur vasta, ma specialmente quella del potere della politica nel sistema democratico e nel, caso italiano, dei partiti che ne erano l’espressione fondativa.
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