Il 1992 fu l’anno dell’offensiva giustizialista. Alla vigilia delle elezioni dopo la crisi del Governo Andreotti, il 17 febbraio, Mario Chiesa, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio di Milano, venne arrestato mentre stava incassando una tangente per fronteggiare i costi di un divorzio. Il PSI lo espulse e Craxi chiamò Chiesa “mariuolo”, quando era già a San Vittore: da qui partirono le indagini della Procura di Milano, che chiaramente puntava a Craxi e ai suoi stretti collaboratori milanesi.
La macchina della Procura milanese procedeva con progressione inarrestabile, specialmente dopo le dimissioni del Governo Andreotti del 24 aprile, con arresti per tangenti e avvisi di garanzia che colpivano in primo luogo i socialisti come gli ex sindaci di Milano, Tognoli e Pillitteri.
Bisogna ricordare che le elezioni politiche svoltesi nell’aprile del 1992, pur colpendo il sistema dei partiti, anche per la crescita silenziosa, ma importante, della Lega Nord nelle regioni settentrionali, le più ricche e industrializzate del paese, videro confermato il consenso maggioritario ai partiti di governo. Non solo. La tesi del mancato sfondamento elettorale del PSI come fattore primario del regime change del 1992-93, costituisce una tesi di comodo, specialmente per quelle forze che si erano ben accasate nel sistema consociativo. Nelle tre elezioni politiche che coprono i sedici anni della leadership di Craxi dal 1976 al 1992 il differenziale del PSI rispetto alla DC e al PCI era costantemente diminuito e nel 1992 si era ridotto a meno di tre punti. Ormai, dopo la caduta del Muro di Berlino, il PCI rischiava di perdere il ruolo di garanzia del sistema consociativo, che si era strutturato nell’intreccio pubblico-privato nei decenni precedenti e che aveva visto nell’ascesa di Craxi una minaccia. In quelle elezioni La Lega Nord ottenne l’8,7%, ma in Lombardia superò il 25%, in Piemonte e Veneto il 19%, in Liguria il 15% e in Emilia-Romagna il 10%, evidenziando il fatto che il movimento contro la partitocrazia, contro il centralismo romano e l’oppressione fiscale, stava penetrando anche nelle regioni “rosse”. Alla fine nelle elezioni del 1992 la maggioranza del quadripartito DC-PPS-PSDI-PLI, senza i Repubblicani, su 630 deputati ne ottenne 346 e su 315 senatori ne ottenne 163. La maggioranza c’era, ma era proprio questo il problema: bisognava evitare che gli effetti della caduta del comunismo accelerassero i cambiamenti istituzionali minacciati da Craxi e dal presidente della Repubblica Cossiga. I gattopardi del tutto cambi perché nulla cambi erano già all’opera con l’aggiunta dei moralisti dell’ultima ora.
Alla fine di aprile Cossiga, con un gesto inatteso che aggravò la crisi, si dimise con sei mesi di anticipo dalla Presidenza della Repubblica e il 25 maggio, dopo una serie di votazioni nulle per Forlani, venne eletto il nuovo presidente, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro. L’ex presidente della Camera, ostile alle esternazioni del Presidente Cossiga in merito alle riforme istituzionali e al ruolo della magistratura, sembrava andar bene a molti.
L’elezione a grande maggioranza avvenne sotto l’urto dell’azione terroristica della Mafia, che il 23 maggio compì un terribile attentato contro Giovanni Falcone, uomo di punta della lotta contro la mafia (chiamato alla Direzione Antimafia da Claudio Martelli ministro della Giustizia nel Governo Andreotti) , uccidendolo insieme alla moglie ed agli uomini della scorta. L’attentato smosse il Parlamento che elesse al sedicesimo scrutinio Oscar Luigi Scalfaro.
Dopo poco, (19 luglio 1992), anche Paolo Borsellino, altro magistrato che collaborava a stretto contatto con Falcone, fu assassinato in un attentato insieme ai quattro agenti della scorta.
In questo drammatico contesto aggravato dalla crisi dei partiti colpiti da Tangentopoli, il nuovo Presidente cercò il consenso nei grandi organi di stampa e non nei partiti. In questo modo Scalfaro si trovò come “prigioniero” del circo mediatico giudiziario.
Crisi finanziaria, crisi dei partiti, conflitti istituzionali e terrorismo mafioso, dotato di efficienza militare impressionante, rendevano la situazione incerta e carica di presagi negativi. Inoltre, l’Italia rappresentava l’anello debole nella costruzione dell’Unione europea che marciava, ormai, a grandi passi verso l’approvazione del Trattato di Maastricht. Trattato firmato dall’Italia il 7 febbraio 1992 e poi ratificato nel ’93, nonostante la situazione finanziaria fosse assai distante dai parametri previsti per l’integrazione economica e la moneta unica. Tutto questo poteva scatenare tutta una serie di operazioni internazionali, politiche e finanziarie, tese a minare il percorso europeo, colpendo una nazione fragile come l’Italia. Non a caso la situazione finanziaria già nell’estate del 1992 si andò aggravando, quando di fatto il paese era “senza un governo”, perché il 23 aprile si era inaugurata la XI legislatura e il Governo Andreotti si era dimesso. Il Trattato di Maastricht per l’Italia avrebbe dovuto segnare il passaggio da una economia dominata dalla “mano pubblica” (e sul meccanismo dello scambio) ad una basata sul mercato. «Con il meccanismo dello scambio, gli imprenditori si assicuravano un mercato protetto come quello delle opere pubbliche e degli appalti, fornendo in cambio ai partiti i mezzi necessari al loro funzionamento; ed era ancora sui vantaggi dello scambio che si era creata l’alleanza fra sindacalismo, clientelismo politico e lobby private: tutti prosperavano grazie ad un sistema diventato ormai insostenibile» (G. Mammarella, L’Italia di oggi. Storia e cronaca di un ventennio 1992-2012, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 21).
Ora si aggiungeva la “spinta” Europa, davanti alla quale una parte della classe dirigente e dei partiti italiani si muoveva per l’integrazione e per la liberalizzazione dei mercati, mentre una parte trasversale voleva mantenere il vecchio sistema senza aggredire il deficit e senza razionalizzare la spesa sociale. La situazione economica e finanziaria imponeva alla Banca d’Italia tassi d’interesse sempre più elevati, mentre rallentava la crescita e saliva il deficit Il 29 giugno in una riunione con i ministri dell’economia il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, dichiarò che la situazione stava per precipitare..
L’economia italiana era investita da ondate speculative tese anche a rompere il “monopolio” di Mediobanca, che aveva regolato, sino ad allora, gli investimenti delle grandi famiglie del capitalismo italiano, ma anche ad impadronirsi di pezzi dell’industria pubblica (IRI, Eni, Enel, ecc.).
Nel frattempo il cosiddetto “circo mediatico-giudiziario” diventò il motore della “rivoluzione”, una sorta di super-potere che stravolgeva il senso dell’azione giudiziaria con indagini condotte senza rispetto per le garanzie degli imputati, che regolarmente venivano “sbattuti” in prima pagina. La carcerazione preventiva, facendo venir meno il principio costituzionale della non colpevolezza prima del processo, diventò un mezzo di tortura per favorire o per estorcere confessioni. Nel giro di pochi mesi l’Italia era ritornata al principio di colpevolezza come base della giustizia, alla confessione e alla chiamata in correo, come ai tempi della Santa Inquisizione. I suicidi segnarono le tappe di avvio di Tangentopoli. Alcune associazioni economiche e la grande industria, segnatamente i gruppi Agnelli e De Benedetti, che controllavano gran parte della proprietà della grande stampa di opinione, «Corriere della Sera», «La Stampa», «La Repubblica», e persino «Il Sole 24 Ore», “appoggiarono” le inchieste anche per potersi garantire il favore delle Procure.
Antonio Di Pietro, sostituto procuratore di non modeste ambizioni, prese in cura il “mariuolo” a San Vittore. Dopo un po’ Chiesa cominciò a parlare, aprendo le porte del carcere a tanti imprenditori che poi confessavano e uscivano. Di Pietro mirava sempre più in alto, voleva arrivare a Craxi, ma intanto le confessioni investivano anche la DC e gli altri partiti, compresi i post-comunisti che spesso preferivano alle tangenti, come spiegato dallo stesso Di Pietro, l’assegnazione di lavori alle “cooperative rosse”.
Iniziò una reazione a catena (cfr. L. Cafagna, La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia, 1993) tanto estesa era la corruzione, ma anche tanto brutale l’uso della carcerazione preventiva da parte della Procura, che si sentiva appoggiata dai media, comprese le Tv di Berlusconi, di cui Milano era l’epicentro. L’allineamento della stampa fu rapido e sorprendente, senza remore e senza scrupoli. Frutto di una cultura che alimentò un clima “forcaiolo” di cui, alcuni giornalisti non si resero nemmeno conto ed altri, invece, ne approfittarono per fare carriera. Altri, infine, fecero il loro mestiere. Spesso erano giovani e non potevano capire dove si sarebbe andati a finire. Craxi, ancora a giugno 1992 candidato alla Presidenza del Consiglio, fu investito da un’ondata di veleni usciti dai verbali degli interrogatori di Chiesa e finiti sui giornali per strade ben oleate anche in violazione di principi e procedure di legge a tutela delle persone. Craxi capì che la “caccia grossa” puntava, ormai, a lui come ebbe a confessare ad Augusto Minzolini in un colloquio svoltosi a Roma, vicino all’Hotel Raphael, il 29 dicembre del 1992 (cfr. A. Minzolini, Un’Italia con la schiena dritta, in Craxi. Vent’anni dopo, in «Le Sfide», n.1, Fondazione Craxi, 2020, p.47).
«Mi hanno già seppellito – disse – meno male che ho fatto i buchi nella bara e continuo a respirare».
La macchina del fango stava travolgendo tutto ciò che si opponeva al procedere della meravigliosa macchina da guerra della presunta rivoluzione di “Mani pulite”. Una rivoluzione che avrebbe potuto essere un colpo di stato, se non fosse che lo stato in Italia era già largamente disfatto. L’ingessatura della guerra fredda stava venendo giù insieme con le macerie del Muro di Berlino e la Repubblica dei partiti, che avevano caratterizzato la storia della politica italiana, stava per essere investita da una strana onda d’urto che fu alimentata dal circo mediatico-giudiziario.
In questo periodo e su queste vicende c’è ancora molto da scoprire, anche per le eventuali implicazioni internazionali, e la storia procede confusa con la cronaca. Già l’aria che iniziò a tirare, intrisa di un diffuso “giacobinismo”, richiamava altri periodi e tragedie storiche, dalla Rivoluzione francese alla “caccia alle streghe” dei regimi totalitari fra le due guerre. Un clima non degno di una giustizia giusta in uno Stato di diritto. Lo si vide dal ricorso alla carcerazione preventiva e ai processi sommari e violenti celebrati sulle prime pagine, ma anche dai suicidi.
Bloccata la candidatura di Bettino Craxi, per le rivelazioni di cui si è detto, il 28 giugno fu formato il Governo Amato. Un governo destinato ad essere decimato da avvisi di garanzia e dimissioni (Martelli, Goria, Reviglio, Fontana, De Lorenzo). Poteva essere, come fu, un buon governo, ma la sua vita fu tormentata dal moltiplicarsi delle vittime delle inchieste, dalla disarticolazione del sistema e dalla speculazione che si abbatté sulla lira in maniera inusitata. Il Governo Amato affrontò comunque con grande coraggio la situazione, cercando prima di tutto di fronteggiare la crisi economica e finanziaria.
Il 13 settembre, davanti agli attacchi speculativi, il governo fu costretto a svalutare la lira e il 17 settembre l’Italia uscì dal sistema monetario europeo. Inoltre si bloccarono le pensioni di anzianità e furono rinviati i rinnovi dei contratti del pubblico impiego.
Fedele al metodo della concertazione, ora, però, imposto dalla necessità, Amato promosse un accordo tra Confindustria e sindacati sul costo del lavoro che portò alla eliminazione definitiva della “scala mobile”, che il grande economista Franco Modigliani fin dal 1975 aveva definito la causa principale della inflazione e della disoccupazione e che Bettino Craxi aveva cercato di riformare parzialmente scontrandosi con il PCI e con la CGIL. Amato fu costretto ad accelerare il processo delle privatizzazioni su cui Craxi era stato sempre molto cauto e più spesso critico.
L’opinione pubblica fu portata a credere che tutto ciò, cioè il dissesto della finanza pubblica, fosse dovuto solo alla corruzione e non alla realtà strutturale e alla speculazione. Il 13 ottobre si svolse uno sciopero generale contro la finanziaria, ma il governo andò avanti e 50 mila miliardi di BOT furono assorbiti senza difficoltà, ma con tassi che andarono oltre il 18%. Chi aveva speculato sulla lira ora “incassava”.
Per arginare il problema del deficit Amato presentò una durissima manovra finanziaria con tagli e imposte per 93.200 miliardi, arrivando a imporre un prelievo sui depositi bancari degli italiani. Il governo tentava di fronteggiare la crisi finanziaria, in un clima di destabilizzazione permanente determinato dalle inchieste giudiziarie di Tangentopoli.
laura lodigiani
per quanto riguarda l attentato a Falcone l ‘osseervazione che fu un attentato di potenza militare mai usato prima dalla mafia e non più utilizzato lo spiega molto bene il libro “Il viaggio di falcone a Mosca” di Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov , al tempo procuratore generale a Mosca dove si evince che l attentato fu fatto per evitare il viaggio a Mosca di Falcone dove avrebbe potuto esaminare documenti che avrebbero portato alla sbarra il PCI per riciclaggio continuo di soldi del PCUS ! L’attentato chiuse le porte a chiunque volesse svolgere una seria inchiesta nei confronti del PCI .L attentato quindi certamente non interamente mafioso fermò brutalmente Falcone e fu un avvertimento per chiunque volesse percorrere quella strada!