Per il Monte dei Paschi non c’è pace. Alla vigilia della riunione del board in calendario il 7 febbraio si è scatenata un tempesta a causa originata dalle insistenti voci che dànno dimissionario o comunque in uscita l’amministratore delegato Guido Bastianini. L’inserimento all’ordine del giorno di un punto su «una verifica di corporate governance» che investe la figura del Ceo della banca ha suscitato clamore se non sorpresa e un nugolo di prese di posizione. Il momento è assai delicato perché ancora non è stato approvato dalla direzione generale concorrenza della Ue il piano industriale. L’Antitrust ha gli occhi puntati sui ritardi con cui si procede. Sono in ballo l’aumento di capitale e la definizione della quantità di esuberi volontari (si parla di circa 4000, dei quali 2000 a Ssiena). I risultati che verranno portati all’attenzione del cda sembrano buoni, anche se il titolo Mps nell’ultimo anno non ha brillato. Non è un mistero che non c’è piena sintonia tra Bastianini e governo Draghi. Se il Tesoro (che detiene il 64% del capitale) vuole – deve – essere coerente con gli impegni assunti con Bruxelles e accordarsi, magari, su una graduale privatizzazione, da parte di chi guida Mps si sono enfatizzate le potenzialità di ripresa stand alone di Rocca Salimbeni, suscitando ampi consensi in chi ha osteggiato e osteggia qualsiasi forma di aggregazione, tanto più dopo il fallimento della trattativa con Unicredit. Si riproduce, insomma, il divario tra una visione gelosa e localistica che si rassegna ad avere una banca ridimensionata ma radicata nel territorio consueto e quanti ritengono più fecondo e attuale un consolidamento garantito da un sistema a largo raggio e di respiro nazionale/europeo. A niente son servite le amare lezioni del passato. Le manovre o le esigenze di una politica ancorata a vecchie pregiudiziali e intenzionata alla conservazione di privilegi divenuti anacronistici hanno portato alle azzardate scelte e a disastri ben verificabili. È pertanto inaccettabile che, ignorando responsabilità e competenze di organi e istituzioni, si assista al ripetersi di una sguaiata commedia all’italiana marcata da vizi da tutti a parole esecrati. Perché mai, anticipando considerazioni che investono varie sedi e sono affidate in primo luogo agli azionisti pubblici e privati, il presidente Giani detta il da farsi e esplicita con veemenza («non deve nemmeno esistere una cosa di questo genere») un sostegno assoluto – che può rivelarsi controproducente – ad un valido amministratore e al suo impegno? A chi giova trasformare un complicato confronto in una contesa sui nomi? Che Salvini gridi allo scandalo o irrompa sulla scena alla ricerca di qualche voto in più si capisce. Ma chi copre alti ruoli nel Parlamento o in Regione sarebbe auspicabile esercitasse le sue funzioni senza proclamare diktat o di fatto esaltare demagogicamente rassicuranti modelli. Colpisce che si siano accodati a questa personalizzante bagarre esponenti di pressoché ogni area, dal Pd ai pentastellati, da Fratelli d’Italia alla sinistra di Stefano Fassina. Non è un segno buono. I sindacati in questa occasione hanno reclamato che si faccia chiarezza e si offrano certezze. Non hanno torto, purché vengano osservate regole imprescindibili di riservatezza e di rispetto verso lo stesso Bastianini: in gioco c’è la prospettiva che par sostenere come filosofia prevalente la sua visione del futuro di Mps. E la continuità o meno, le correzioni eventuali ad un’agenda da determinare e condurre con la massima armonia.
(questo articolo, pubblicato sul “Corriere Fiorentino” del 4 febbraio 2022, viene ripreso con il consenso dell’autore)
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