Se Andreotti era il Divo, almeno secondo il regista Sorrentino, l’appena rieletto Sergio Mattarella è il Deus ex machina: quello che, nel teatro antico, arrivava sulla scena grazie a un marchingegno per risolvere le situazioni ingarbugliate in cui gli umani sono soliti cacciarsi.
Chi non è convinto di questa analogia, è pregato di rivedersi nel film la magnifica sequenza della mancata elezione di Giulio Andreotti a Presidente della Repubblica: l’aplomb con cui lui riceve dai vari leader della sua corrente la candidatura, e poi la terribile notizia che il Parlamento ha scelto al suo posto Oscar Luigi Scalfaro. Vengono in mente i versi di Montale: “Bene non seppi, fuori del prodigio/ che schiude la divina Indifferenza:/ era la statua nella sonnolenza/ del meriggio, e la nuvola, e il falco/ alto levato.
C’è sempre stata teatralità nell’elezione del Capo dello Stato, perché anche nella Repubblica laica e antifascista, nata con la defenestrazione della monarchia, bisognava conservare un minimo di sacralità. E, quindi, fare delle elezioni presidenziali un rito con gli attori protagonisti, i ruoli secondari, il coro e tutte le funzioni tipiche della narrazione (equilibrio iniziale, rottura dell’equilibrio, peripezie dell’eroe, scioglimento).
Niente di nuovo nella rielezione di Napolitano allora e di Mattarella ieri: anche quando la vicenda si fa ingarbugliata al punto che gli attori in campo non sanno come sbrogliare la matassa, c’è sempre un modo per cavarsela e arrivare al finale: il Deus ex machina. Applausi, spettatori contenti, il prossimo spettacolo fra sette anni.
Tutto liscio, dunque, tutto regolare? Non proprio, una bella differenza c’è tra una volta e l’oggi: nella Prima Repubblica e persino nella Seconda, almeno fino alle elezioni politiche del 2013, ci sono i partiti con leader riconosciuti e in grado di determinare le scelte dei Grandi elettori; poi inizia l’avvento dell’antipolitica che entra con impeto nelle massime istituzioni, e che tutto travolge. Detto in poche parole: leader come Andreotti, Forlani, De Mita, Craxi, Berlinguer, Berlusconi e finanche Bossi sembrano giganti in confronto agli attuali Conte, Letta e Salvini.
Ecco perché le elezioni presidenziali un tempo si incasinavano naturalmente, data la sacralità della figura del Presidente che è garante dell’unità nazionale; ma poi si risolvevano dignitosamente quasi sempre con dei compromessi raggiunti tra i vari leader.
Ormai non funziona più così; e in Parlamento non si trova più un accordo, neppure al ribasso, perché nessun leader è in grado di orientare le scelte dei suoi: più che partiti sembrano gruppi che si formano e si disfano liquidamente per dirla con Bauman, in funzione del momento e degli interessi. Che cosa hanno espresso, infatti, i governi giallo-verde e giallo-rosso della precedente legislatura se non la morte definitiva delle ideologie e della Politica?
Mattarella, come prima di lui Napolitano, aveva già un piede fuori dal Quirinale (si dice avesse preso in affitto un appartamento a Roma); ma poi si sono presentati i vari capipartito dell’attuale maggioranza e, praticamente in ginocchio, l’hanno implorato di restare, visto che i tentativi di trovare un altro nome erano andati tutti a vuoto. Che poteva rispondere? Me ne frego? Meglio mantenere lo status quo che far sprofondare il Paese nel caos.
Certamente il Presidente saprà mantenere la barra dritta come ha fatto in passato: soprattutto quando non si fece incantare dai sostenitori del Conte ter e, nel momento forse più difficile della storia repubblicana, chiamò al governo Mario Draghi. Senza per questo togliere niente al merito di Matteo Renzi, che del fallimentare governo giallo-rosso fu il primo terminator.
Il prossimo anno di legislatura, al netto delle turbolenze interne agli stessi partiti e ai primi avvisi di campagna elettorale, dovrebbe procedere bene nel binario ormai collaudato del duo istituzionale Mattarella-Draghi; e quindi continuare con la campagna vaccinale fino alla vittoria finale sul Covid (ce lo auguriamo) e avanti tutta con il Pnrr.
Ma una cosa bisogna dirla con franchezza al nostro bravo e generoso Presidente: finora, di fronte alla crisi radicale della giustizia, con lo scandalo delle correnti che fanno da padrone nel CSM e determinano le carriere dei magistrati in base ad accordi politici e non al merito, Mattarella si è limitato a qualche esternazione. Eppure lui sarebbe, secondo Costituzione, il capo del Consiglio Superiore della Magistratura, colui che potrebbe deciderne persino lo scioglimento.
In passato, Pertini nel 1981 e poi Cossiga nel 1991, intervennero duramente nei confronti dell’organo di autogoverno della magistratura, per evitare sconfinamenti del terzo potere nei confronti dell’esecutivo e della politica. Neppure in quei casi, alla fine, il CSM venne sciolto, ma almeno i due Presidenti si mostrarono determinati. Addirittura Cossiga, quando i giudici di Palazzo dei Marescialli volevano intervenire a gamba tesa sugli scandali della politia, mandò i carabinieri nella loro aula minacciando lo scioglimento.
Mattarella, invece, nonostante la denuncia fatta pubblicamente dall’ex membro Palamara, non ha mai concretamente provato a ridimensionare il potere dell’organo di autogoverno.
Ora, però, è arrivato il momento dei fatti e delle azioni. Il Mattarella bis sarà in grado di assecondare la riforma della giustizia ridimensionando il potere assoluto del CSM? E soprattutto: avrà la volontà di farlo?
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