Ancora non si chiamavamo “competenze non cognitive”, ma le competenze sociali – soft skill e life skill – non sono certo argomenti nuovi per chi si occupa di didattica, di formazione e di lavoro. Nella scuola se ne parla dal 1993, quando una ricerca dell’OMS – organizzazione mondiale della sanità – dimostrò che il loro potenziamento consente di avere dei bambini più sani. Da allora molti altri studi hanno dimostrato quanto possedere queste competenze sia essenziale per il benessere individuale, relazionale e, dunque, collettivo.
L’11 gennaio scorso è stato approvato un provvedimento normativo che dà il via – dal prossimo anno scolastico – ad una sperimentazione triennale che mette al centro del processo di apprendimento-insegnamento proprio queste competenze. L’obiettivo dichiarato nella legge è lo sviluppo di quelle abilità che portano a comportamenti positivi e di adattamento, che rendono l’individuo capace di far fronte efficacemente alle sfide della vita di tutti i giorni, con mente aperta e approccio critico e creativo.
Nella pratica, si tratta di un “saper vivere” che si riscontra nella capacità di gestire le emozioni, ma anche la gestione dello stress, la comunicazione efficace, l’empatia, il pensiero creativo e quello critico, oltre che le capacità di prendere decisioni e risolvere problemi.
Si tratta di quelle abilità che facilitano la vita perché dànno sicurezza, sviluppano l’autonomia e l’autostima. Si tratta, ancor più pragmaticamente, di saper lavorare in gruppo, comunicare efficacemente, imparare ad imparare, gestire i conflitti personali senza riportare troppe ferite emotive, e neanche economiche o fisiche, magari.
Una volta si sarebbe detto: saper stare al mondo.
Sul Corriere del 28 gennaio, ho letto con sgomento l’articolo di Ernesto Galli della Loggia che spara a zero – con qualche giorno di ritardo – commentando questo nuovo atto normativo. All’inizio, le sue parole mi hanno ricordato a quelle teorie complottiste secondo le quali il vaccino anti-covid conterrebbe dei microchip per controllare le persone trasformate in automi. Da parte dei “poteri forti”, naturalmente.
In effetti, Galli della Loggia afferma qualcosa di simile. Scrive: “Mai la scuola si è proposta di formare un tipo standard di individuo, di persona modellata secondo specifiche decise in precedenza come se fosse una macchina (..) al controllo normalizzatore della personalità dei suoi allievi (..) Si realizza così il vecchio progetto di ogni totalitarismo”.
Non so, forse l’autore di quel pezzo – di cui comunque consiglio la lettura – si è bloccato sulle parole “comportamenti positivi e di adattamento” interpretandole in senso restrittivo.
Ogni insegnante è prima di tutto un educatore e non può esimersi dall’educare lo scolaro, l’alunno o lo studente che gli sono affidati. Ciò significa limitarne la libertà ed i comportamenti? Certamente sì. La scuola ha il compito istituzionale di far comprendere il rispetto delle regole: giuridiche e sociali. Nel rispetto delle persone e dei principi fondativi contenuti nella nostra Costituzione. Aiutando i ragazzi a sviluppare la loro etica soggettiva e allenandoli ad accrescere tutte quelle abilità che serviranno loro a comprendere l’ambiente in cui vivono, osservarlo con mente aperte e occhi che si rinnovano al ritorno da ogni viaggio nella conoscenza o esperienza.
Le pulsioni umane ci fanno agire comportamenti impulsivi che, certo, sono fisiologici, in quanto dettati dalla nostra conformazione del cervello limbico. Ma poi abbiamo anche una corteccia frontale, che ha permesso l’evoluzione della specie umane e ne è il risultato.
L’umanità si è evoluta proprio perché capace di “adattarsi” al cambiamento, dominando tutte quelle resistenze pulsionali che ci fanno resistere quando dovremmo abbandonare la nostra confort zone. Basta vedere quanto è stato difficile accettare l’idea di dover rinunciare ad inquinare allegramente l’ambiente per preservare, non il pianeta in quanto tale, ma la stessa vita dell’uomo sulla terra.
Insomma, noi umani siamo esseri assai complessi e spesso ci dimentichiamo di ciò. Dimentichiamo che siamo formati da tante forze: i sensi, le pulsioni, le emozioni, le intelligenze, la parola, la memoria, la ragione, l’identità, la socialità, la cultura, la volontà.
La scuola non può ignorare questa complessità. Non può ignorare che il suo lavoro incide su quegli allievi e su come quelle persone si comporteranno da adulti.
Per accrescere le loro potenzialità ed i loro talenti, per aiutarli a crescere sani e soddisfatti di sé, bisogna che gli insegnanti stessi acquisiscano (dove mancano) nuove competenze. Competenze didattiche e metodologie attive ed attivanti che facilitino il processo di apprendimento dei loro allievi. Nell’apprendimento cognitivo e non cognitivo. Ovvero il processo dell’intelligere razionale ma anche quello emotivo e pulsionale.
Perché gli umani sono tutto questo. Per non parlare della sfera spirituale.
Benvenga dunque l’avvio della sperimentazione e anche del massiccio intervento formativo di aggiornamento dei docenti.
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