L’inflazione è al centro delle preoccupazioni dei governi e focalizza l’attenzione degli economisti. Invocata al tempo della deflazione, oggi che è arrivata, tutti a lamentarsene. Troppa grazia, Sant’Antonio! Che si dice tra gli economisti?
Si dice che oggi le conseguenze della pandemia e dell’inflazione appaiono due fenomeni funzionalmente connessi, ma distinti dal punto di vista economico. Ad esempio, Philip R. Lane, membro del Comitato esecutivo della BCE, nell’aprile scorso attribuiva gran parte della volatilità dell’inflazione nel periodo 2020-2021 al carattere stesso dello shock pandemico e all’attenuazione delle forze disinflazionistiche. Inoltre, pur considerandola un evento transitorio, egli ammoniva sulla scossa asimmetrica del Covid-19, che ha comportato riallocazioni della spesa dei consumatori tra diverse categorie, con un aumento di quella per generi alimentari e attrezzature, e restrizioni dell’offerta, con un incremento significativo della dinamica dei prezzi. Si è determinato anche un effetto di convessità, secondo cui i rincari di prezzo per articoli sottoposti a un aumento della domanda sono maggiori dei cali di prezzo per articoli investiti da una diminuzione della domanda.
Questa convessità i consumatori la percepiscono bene, i prezzi salgono subito, le riduzioni procedono lentamente. In Italia basta frequentare i distributori di benzina… mi scusi l’interruzione impertinente…
Lane, già in primavera, evidenziava le pressioni al rialzo provocate dall’andamento dei prezzi delle materie prime e dalle strozzature in alcuni comparti, trasporto di merci e semiconduttori, seguiti da altri. Sempre allora, valutando le aspettative di inflazione a più lungo termine, egli notava i movimenti di risalita dei prezzi più pronunciati negli Stati Uniti e metteva in rilievo la componente finanziaria del fenomeno. Così come, osservava un’evoluzione della pandemia che “continua a porre rischi continui per il percorso previsto dell’inflazione”. Più di recente, Christine Lagarde, pur continuando a sostenere che l’inflazione “dovrebbe” rientrare nel medio periodo, ha sottolineato come si sia intensificata notevolmente a causa della cabrata dei prezzi dell’energia (carburante, gas ed elettricità) e per il superamento in atto della domanda sull’offerta, limitata in vari settori dell’economia.
Ma questo è un segnale di riprese dell’economia, si produce di più e serve più energia: caso mai pesa l’imprevidenza di chi si è baloccato senza impostare politiche serie per l’ampliamento delle risorse energetiche e differenziazione delle fonti, inseguendo fole di ambientalismo ideologico. Ma di nuovo, mi perdoni, riprendiamo il filo del discorso.
La Presidente della BCE ha affermato che “c’è incertezza su quanto tempo ci vorrà per risolvere questi problemi” e che “se le pressioni sui prezzi si tramutano in aumenti salariali più elevati del previsto o se l’economia torna più rapidamente alla piena capacità, l’inflazione potrebbe rivelarsi più elevata”. Per questi motivi – di fronte a un’inflazione su base annua nell’eurozona, che alla fine del 2021 ha raggiunto il 5% – le aspettative sono state riviste al rialzo ed è stata contemplata una revisione flessibile delle politiche monetarie europee per garantire, in modo diverso dal passato, la stabilità dei prezzi. Se si aggiungono al dato europeo l’indice dei prezzi al consumo al 7% negli USA, la percentuale più alta dal 1982, e i livelli globali del debito a rendimento negativo che, secondo il Financial Times, si sono spinti a 10 trilioni di dollari, il quadro è completo.
Dani Rodrik, scrivendo in questi giorni sulle “Eresie dell’inflazione”, ha rilevato che lo spettro di questo fenomeno sta di nuovo perseguitando il mondo, dopo un esteso periodo di deflazione. L’economista dell’Università di Harvard, a differenza di altri colleghi, sostiene che l’economia non è una scienza con regole fisse e che dovrebbe essere umile quando sollecita o respinge strategie di lotta all’inflazione.
Ma se l’economia fosse scienza od arte è dibattito che risale a inizi Ottocento, tra Ricardo e Malthus… siamo sempre al solito punto?
Le risposte politiche, nel senso delle strategie, cercando di contestualizzare le teorie con i fatti concreti, possono essere diverse da quelle tradizionali, sia dall’approccio ortodosso di riduzione della spesa e aumento dei tassi di interesse, sia da quello di abbassamento dei medesimi tassi o di controllo dei prezzi o, ancora, di repressione delle grandi aziende: condizioni variabili richiedono strategie differenziate. Secondo Jayati Ghosh, il tema del governo dell’inflazione è di nuovo all’ordine del giorno della politica economica. Anche perché si sta verificando un’impennata dei prezzi alimentari, che, insieme a quella dei prezzi dell’energia, ha un impatto diretto molto forte sulla vita delle persone e sulle economie più arretrate.
La impennata dei prezzi alimentari non è provocata da un miglioramento delle condizioni di vita? Ed alle le visioni catastrofistiche alla OXFAM?
La combinazione di cibo più costoso e redditi più bassi – come sta avvenendo in realtà – è micidiale, mostrando che l’inflazione può colpire maggiormente chi guadagna meno e può avviare una spirale ancor più pericolosa. In che modo si relazionano, dunque, gli effetti della pandemia con quelli dell’inflazione? Se si osservano entrambi in una prospettiva di breve periodo, nonostante il fenomeno ormai generalizzato di incremento dei prezzi, si può pensare a un colpo più grave inferto da Omicron e Delta, vista la dilazione dei tempi con cui si pensa di tornare ai livelli precedenti dell’economia. Tuttavia, se si guarda a una dimensione di più lungo termine, è probabile che la ricostruzione e lo sviluppo si impongano sulle rovine economiche del virus. Così, l’inflazione resterebbe un problema di carattere strutturale da affrontare con intelligenza e tenacia, anche attraverso le politiche fiscali, per evitare di bloccare la ripresa economica e di inasprire le disuguaglianze che penalizzano la parte più debole della società.
Veniamo ad i problemi immediati, alle bollette. Ma la questione ambientale che ruolo ha in questa situazione?
Nel 2021 i prezzi all’ingrosso dell’energia nella UE sono aumentati di circa il 200%, anche per i rincari del carbonio, mostrando come le strategie di transizione verde ricadano sull’andamento dei prezzi di mercato e, quindi, vadano ben calibrate. A determinare questa circostanza, nonostante l’Europa stia generando una quota maggiore di elettricità da fonti rinnovabili, ha contribuito di più il gas, ancora fortemente vincolato ai combustibili fossili e gravato dalla dipendenza dalle importazioni, in particolare, da quelle più care di GNL dai Paesi asiatici. Su un altro versante, il prezzo del petrolio si è innalzato del 29% da dicembre, raggiungendo il massimo degli ultimi sette anni, con il greggio che potrebbe arrivare a 100 dollari al barile, secondo il Financial Times. Gli Stati Uniti stanno gestendo la loro produzione di petrolio di scisto (shale oil), mentre l’Europa rischia di essere in balìa dei mercati di approvvigionamento, ma è il mondo intero a trovarsi di fronte al dilemma della scarsità energetica. Gli investimenti verso nuovi progetti produttivi di gas e petrolio si sono bloccati, come rileva Goldman Sachs in una ricerca che mostra la rottura del legame tra crescita dei prezzi dell’energia e spese in conto capitale, perché gli investitori evitano sempre più le industrie che utilizzano fossili ed emettono elevato carbonio.
Bisogna allora frenare la transizione ecologica?
Questo fenomeno, definito la “vendetta della vecchia economia del carbonio”, non può essere considerato di carattere congiunturale, originando un nuovo ciclo di rialzo del costo delle materie prime. Del resto, le crisi energetiche provocano conseguenze di fondo sull’economia, come nel 1973, quando si chiusero i “Trenta gloriosi”, ovvero gli anni dello sviluppo rigoglioso dell’Italia e dell’Europa, e iniziò la lunga epoca del tragitto postfordista. Come allora, dipendiamo da un’alta percentuale di sempre più dispendiose importazioni energetiche, in assenza di investimenti e diversificazioni nelle fonti. Nella relazione di quell’anno del governatore della Banca d’Italia, Guido Carli affermava che: “La maggiore difficoltà di accesso alle materie prime e alle fonti energetiche e il maggior rispetto dell’ambiente si ripercuotono in aumenti dei costi, in quegli stessi settori nei quali in passato l’incremento di produttività compensava gli sprechi di altri settori”. L’inflazione, quindi, si combinava con fattori strutturali, che si ripropongono ora, in un contesto diverso, come sta accadendo con le tensioni al rialzo nel settore automobilistico a rischio di ostacolarne l’approdo al green.Isabel Schnabel del Comitato esecutivo della BCE indica i pericoli di inasprimento dell’inflazione, pur puntando ad affrettare la transizione. Alberto Clò sostiene che la crisi attuale è più grave di quella del 1973: “Se allora ne fu ritenuto responsabile l’OPEC, oggi gli strali sono spesso rivolti alla mal programmata accelerazione del processo di decarbonizzazione. Perché causa di una caduta degli investimenti e quindi dell’offerta futura.
Cosa si può fare, allora?
Le cose possono andare diversamente solo pensando ad azioni complementari, che guardino nel contempo a geopolitica ed economia e sappiano coniugare costi e benefici nelle scelte da compiere. Un mix tra misure del Green Deal e del Next Generation EU potrebbe fornire gli strumenti utili per una soluzione, certamente non immediata. La ricerca di tappe graduali durante il percorso delle grandi innovazioni (impiego dell’idrogeno e ulteriore diffusione delle rinnovabili) potrebbe dare risultati più ravvicinati. Quello che sicuramente bisogna scongiurare, anche attraverso decisioni coraggiose di condivisione delle riserve energetiche a livello europeo e di ampliamento delle capacità produttive nazionali di energia, è che rallenti il sistema industriale e che siano i consumatori e gli strati sociali più poveri a pagare questa inflazione da costi.
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