L’enigma della successione (Feltrinelli) è un bel libro del costituzionalista Alfonso Celotto, che ci racconta i casi più significativi della storia in cui sovrani come Diocleziano ed Elisabetta I, papi come Benedetto XVI e Francesco I, presidenti della repubblica come Roosvelt e il nostro De Nicola, e persino il dittatore Benito Mussolini ebbero a che fare con il problema della successione per ragioni molto specifiche. Basti pensare a Enrico De Nicola che, come primo presidente dell’Italia repubblicana, si trovò nella situazione inedita di dover succedere a un re; o papa Francesco che è salito sul soglio pontificio in seguito alle dimissioni, ma non alla morte, di Benedetto XVI il quale attualmente mantiene il titolo di papa emerito.
Immagino che il prof Celotto, in caso di una futura ristampa del suo saggio, sarà tentato dall’aggiungere un ulteriore capitolo dedicato alla vicenda molto enigmatica dell’attuale successione di Mattarella; vicenda che si sta complicando sempre di più in questa ultima settimana prima dell’inizio delle votazioni per due motivi evidentissimi.
Il primo è che la via che sarebbe stata e sarebbe tuttora più logica e gradita certamente alla maggioranza degli italiani, nonché ai nostri partner europei e persino nell’altra sponda dell’Atlantico, la candidatura di Mario Draghi a presidente della Repubblica – visto che tutti fino all’altro giorno chiedevano un personaggio super partes e, forse, più superpartitico di lui in Italia oggi c’è solo il papa -, ebbene questa via si è dimostrata lastricata di pietre. Perché i capi dei partiti dell’attuale maggioranza non è che lo amino così tanto da volerselo tenere sicuramente per i prossimi sette anni, con i poteri cosiddetti a fisarmonica di cui un presidente dispone secondo la nostra Costituzione.
Diciamo le cose come stanno: Mario Draghi è troppo più bravo di tutti loro, così autorevole e preparato che in Consiglio dei ministri sbraitano un po’ e la tirano per lunghe e poi, alla fine, votano all’unanimità. Insomma lui è il primo della classe, come uno di quegli studenti bravissimi che finiscono per stare sulle balle a tutti ma che arrivano in cima nelle professioni, nella ricerca, in politica.
Secondo motivo della via lastrica e accidentata è l’autocandidatura di Silvio Berlusconi – che preferirebbe chiamarla discesa in campo -, ormai certificata da un vertice del centrodestra tenutosi nella villa romana del Cav, di cui si conoscono gli esiti e perfino il menu del pranzo. Sulla candidatura di Berlusconi vanno, però, dette alcune cose per evitare dei luoghi comuni, come quello secondo cui si tratterebbe di un candidato “divisivo” e pertanto inaccettabile da parte della sinistra. Divisivo perché è ancora il leader di un partito; divisivo perché è stato più volte capo di governo a maggioranza di centrodestra; divisivo perché in passato ha subito e scontato una condanna; e infine divisivo perché ci resta antipatico punto e basta.
Ecco sono queste le ragioni, espresse e non espresse, addotte da Enrico Letta, dal Fatto Quotidiano, da Bersani eccetera. Come se Napolitano e lo stesso Mattarella, che poi si sono dimostrati ottimi e imparziali capi di Stato, al momento della loro nomina non avessero una storia pregressa di militanza politica molto ma molto di parte. Per non parlare del tentativo fallito di eleggere Romano Prodi, ex capo dell’Ulivo e leader massimo del centrosinistra.
L’impressione è che in Italia la figura del presidente della Repubblica debba rispettare certi canoni ideologici e anche comportamentali, quasi di bon ton. E’ il motivo per cui Berlusconi non va bene a prescindere dai voti che avrebbe in Parlamento; è il motivo, io credo, per cui finanche Matteo Renzi non potrà mai, rebus sic stantibus, ambire al Quirinale: non è rigorosamente di sinistra ed è pure antipatico ai più.
La democrazia italiana, forse perché ha solo una settantina di anni, è ben lungi da quella americana dove prima viene eletto Obama, un democratico di colore e senza pedigree, e poi Trump, un outsider milionario (lui sì veramente antipatico), per il semplice fatto che avevano i voti degli elettori: that’s America.
Insomma, questa volta l’elezione del presidente della Repubblica si presenta davvero come una faccenda ingarbugliata, ed al momento è praticamente impossibile fare previsioni. La speranza è che vada un po’ come avvenne nel 1946, subito dopo il fatidico referendum del 2 giugno. Allora la Democrazia cristiana e le destre volevano Vittorio Emanuele Orlando, importante giurista e già Primo ministro alla fine della Grande Guerra; le sinistre e i laici, invece, proponevano un’altra eccellenza italiana: il filosofo liberale Benedetto Croce.
Andò a finire che entrambi i pezzi da novanta fecero saggiamente un passo indietro prima delle votazioni, perché capirono di non avere la vittoria in pugno; qualcuno allora fece il nome del maestro Arturo Toscanini; ma poi. il 27 giugno. i tre leader della maggioranza e il presidente dell’Assemblea costituente Saragat si incontrarono e insieme indicarono come capo di Stato provvisorio l’avvocato napoletano Enrico De Nicola: per il bene dell’Italia e della neonata Repubblica.
Ma quelli erano leader coi fiocchi e i controfiocchi: De Gasperi, Nenni e Togliatti.
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