Nelle ultime settimane sono uscite due classifiche relative ai livelli di investimento degli Stati sull’istruzione e la ricerca: la prima è dell’OCSE, con dati del 2018, che colloca l’Italia agli ultimi posti in graduatoria, con una spesa complessiva pari al 4,1% del PIL (la media OCSE è superiore al 6%); la seconda è di Eurostat, con dati del 2019, e in questo caso l’Italia è ultima in Europa, dopo la Grecia, con un 8% del totale della spesa pubblica investito in Education, contro una media europea del 10%. In entrambe le statistiche, si sottolinea il fatto che in Italia, mentre nella scuola primaria si spende di più rispetto alla media europea (la gran parte copre le spese di personale), l’investimento tende a calare via via che si passa ai livelli superiori di istruzione, e crolla vertiginosamente nelle università. Solo un misero 0,6% della spesa pubblica va all’università e all’educazione terziaria, e secondo molti questa piccola fetta è anche mal distribuita. Infatti, i criteri di assegnazione delle risorse vanno a privilegiare in prima istanza il numero di studenti e personale, e in secondo luogo i migliori risultati ottenuti nella ricerca, con l’effetto di andare a sostenere i soliti atenei e sempre quelli già ricchi, e ad aumentare le diseguaglianze territoriali che sono la principale zavorra del paese.
Poiché questi numeri si riferiscono al periodo ante COVID, ed avendo avuto la scuola e l’educazione in generale una grande attenzione mediatica durante i mesi più pesanti della pandemia, quelli che con il lockdown hanno costretto gli studenti alla Didattica a Distanza, potevamo legittimamente aspettarci che il PNRR potesse essere colto come un’occasione straordinaria per recuperare questo gap e per mettere finalmente al centro per davvero tutto il sistema educativo.
Invece, almeno sul fronte della quantità di risorse ripartite, questo non sta accadendo. Dei 191 miliardi messi a disposizione dell’Italia, tra prestiti e finanziamenti a fondo perduto, solo 30,88 miliardi sono destinati a istruzione e ricerca. Di questi, poi, una grossa fetta, pari a 4,6 miliardi di euro, sarà impiegata per il potenziamento dei nidi e scuole dell’infanzia, soprattutto al Sud, con l’obiettivo di poter fornire un servizio capace di accogliere fino al 40% dei bambini da 0 a 3 anni. Intendiamoci bene, questo obiettivo è assolutamente sacrosanto, e risponde a un’esigenza fondamentale non solo per le famiglie, e per le donne che ancora troppo spesso sono chiamate a scegliere tra la famiglia e il lavoro, ma per le bambine e i bambini che hanno il diritto primario di crescere con le stesse opportunità di socializzazione e di educazione su tutto il territorio nazionale. Con questo investimento, ci auguriamo che – come si proponeva anche la cosiddetta Buona Scuola – i nidi per l’infanzia vengano definitivamente emancipati dallo status di servizio a domanda individuale a servizio educativo, pienamente integrato nel percorso di crescita sociale e di apprendimento culturale di ogni bambina e di ogni bambino.
Ma accanto a questa necessaria infrastruttura sociale, l’altro bisogno da soddisfare urgentemente è rappresentato da una qualificazione più elevata da garantire ai giovani di vent’anni, capace di introdurli in un mercato del lavoro altamente differenziato e sempre più specializzato.
l’Italia, infatti, soffre di un basso numero di laureati. In Europa siamo dopo la Romania, con appena il 20,1% di laureati nella fascia di età tra i 25 e i 64 anni, rispetto alla media europea di 32,8%; abbiamo un elevato drop out universitario (sempre secondo Eurostat 2019, la media di abbandono universitario in Italia è 13,5% contro una media europea del 10,6%); tasse universitarie alte; scarsa disponibilità di alloggi per studenti, quelli che permettono la più alta mobilità di giovani verso le città universitarie.
Su quest’ultimo punto, il PNRR si promette di potenziare notevolmente l’offerta, passando dagli attuali 40.000 a oltre 100.000 alloggi entro il 2026. Sul resto delle criticità, invece, gli strumenti individuati rischiano di non essere adeguati al superamento dei limiti strutturali di diffusione e qualità della conoscenza.
Concentriamoci sugli investimenti destinati alla ricerca e all’università. Il Ministero dell’università e della ricerca sta pubblicando i bandi per l’utilizzo dei fondi, e le direttrici indicate per la progettazione sono ripartite in: Centri nazionali per la ricerca, caratterizzati dall’alto livello di specializzazione e contributo scientifico; partenariati estesi, ovvero collaborazioni interuniversitarie a dimensione nazionale per la ricerca in quindici aree già indicate dal Ministero; Infrastrutture per la ricerca, volte al potenziamento della reti ad alto tasso tecnologico; ecosistemi per l’innovazione, network territoriali pubblico-privati guidati da università e dedicati alla traduzione di innovazione in tutte le attività pubbliche e imprenditoriali presenti nell’area dell’ecosistema.
Da una prima disamina delle linee guida emanate dal MUR, pare che i vizi già rilevati di concentrazione su pochi poli e sulle cosiddette eccellenze siano destinati a moltiplicarsi. Fatto salvo il 40% delle risorse vincolate per il Sud, per il superamento del divario territoriale, in tutto il resto del paese saranno ancora le aree più ricche ad avvantaggiarsi. Ma l’altro problema da porsi è se tutti questi investimenti saranno capaci di rispondere alla sfida dell’economia della conoscenza, che avrebbe dovuto costituire il futuro dell’Europa già dal 1993, con l’adozione del Libro bianco di Jacques Delors.
Molte di queste risorse andranno a essere impiegate in “capitale umano”, cioè nell’attivazione di dottorati di ricerca industriali e assegni di ricerca, cofinanziati dalle imprese, che da qui al 2026 potranno annoverare tra il loro personale giovani addetti alla ricerca e al trasferimento tecnologico. La domanda è: cosa succederà dopo il 2026? Il mercato del lavoro, che nel frattempo dovrebbe aver compiuto la transizione verde e digitale, avrà ancora bisogno di questa leva estremamente qualificata di giovani, formati tra università e centri di ricerca e aziende a forte impronta innovativa, oppure questi giovani andranno ad ingrossare ancora, com’è successo fino a qui, le file del precariato della ricerca? A meno che non decidano di lasciare il paese, fenomeno – anche questo – fin troppo noto e diffuso.
Ma a questo problema se ne sta aggiungendo tragicamente sempre più un altro: le transizioni verso la sostenibilità stanno incrementando i fenomeni di delocalizzazione e ristrutturazione industriale, producendo migliaia di disoccupati, in fasce di età che vanno dai 40 ai 50 anni: troppo giovani per la pensione, troppo vecchi per essere reimpiegati in nuovo lavoro.
Di queste lavoratrici e lavoratori che ne facciamo? Ci affidiamo al solo mercato? Ci limitiamo a garantire ammortizzatori sociali più flessibili al bisogno?
Sta emergendo drammaticamente solo oggi quanto grave sia l’impatto delle riforme a metà del mercato del lavoro fin qui adottate, e ancora di più della mancata attuazione – almeno nel nostro paese – di quello che prevedeva il piano Delors ormai 30 anni fa. Quel piano, che rispondeva alla grave crisi economica e finanziaria di fine anni Ottanta, puntava alla riforma del mercato del lavoro in termini di maggiore flessibilità in entrata e in uscita, flessibilità degli orari di lavoro, riduzione del costo del lavoro e aumento della produttività, ma imponeva moli enormi di investimento sull’istruzione e la formazione professionale, riqualificazione della manodopera, ricerca e sviluppo tecnologico, apprendimento continuo (imparare a imparare per tutto il corso della vita, questo era lo slogan).
In alcuni paesi, questo piano è stato sviluppato in tutte le sue parti. Nessuna ricetta è perfetta, ma in Germania, solo per fare un esempio, la flessibilità del lavoro ha riguardato anche gli orari, ed è stata supportata da forti strumenti di accompagnamento e ingenti investimenti in innovazione tecnologica. In Italia abbiamo flessibilizzato oltre misura il mercato del lavoro, con oltre 400 forme contrattuali diverse, ma non c’è stato altrettanto impegno nell’investire e supportare le aziende (specialmente le PMI) verso l’innovazione, e ancora meno nel sostenere la ricerca. È mancato fin qui, potremmo dire, il sistema paese, quello che oggi dovrebbe guidare la transizione digitale e green.
Si tratta ora di fare tutto insieme, di recuperare il tempo perduto.
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