Venti anni fa la Cina entrò a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Era il segno di una globalizzazione galoppante, guidata dalle élites occidentali più ottimiste che consapevoli. Nel ’68 le elites intellettuali occidentali, più saccenti che intelligenti, si erano infatuate della Cina di Mao e pensavano che il comunismo cinese fosse il sol dell’avvenire. Trent’anni dopo, caduto il comunismo, le élites occidentali, più finanziarie che intellettuali, immaginarono che la Cina, che non conoscevano, sarebbe stata, volente o nolente, costretta a seguire le regole del gioco nel commercio e nella politica.
Di calcoli sbagliati è piena la storia, ma questo fu clamoroso e oggi gli storici possono parlare degli errori e delle illusioni occidentali, che due decenni fa portarono la Cina nel commercio mondiale (cfr. D. De Vico “Un elefante in cristalleria. Piccola storia della Cina nel WTO. Col senno di poi” in Corriere della Sera, 6 dicembre 2021).
Forse può servire una “piccola storia” per capire le origini del WTO, un simbolo, oggi in declino, della globalizzazione trionfante.
Tutto prese le mosse alla fine della seconda guerra mondiale, quando con l’ottimismo tipico degli americani, la cooperazione economica internazionale fu presentata come un mezzo fondamentale per la promozione dello sviluppo economico e per il mantenimento della pace. . Un ottimismo certo più edificante del mito del comunismo che caratterizzò il lungo periodo della “guerra fredda”.
Così, dopo gli accordi di Bretton Woods del 1944, vide la luce l’Organizzazione internazionale del commercio (OIC). Ben 50 paesi aderirono al nuovo organismo. Anzi, elaborarono una carta dell’OIC, che nel 1948 fu adottata dalle Nazioni Unite ma nel 1950 gli Stati <uniti, sempre più impegnati sul fronte della guerra fredda, non ratificarono la Carta dell’Avana e affossarono l’OIC
Dal seno dell’OIC, 23 paesi iniziarono un negoziato per ridurre le barriere tariffarie. Si giunse così al GATT (General Agreement on Taraiffs and Trade): quando gli Stati Uniti si ritirarono dall’OIC, il GATT ebbe vita stentata, ma negli anni Sessanta proprio gli USA diedero un nuovo impulso all’organizzazione che divenne lo strumento multilaterale di regolamentazione dei commerci. Il GATT non divenne una struttura permanente ma procedeva con trattative costanti, rounds. Queste trattative andarono avanti con successo e dopo dieci rounds, nel 1994, i paesi aderenti erano saliti da 23 a 123. Le tasse doganali sui prodotti industriali passarono dal 40% al 4% nello stesso periodo. Due principi fondamentali guidarono i vari rounds: nessuna discriminazione tra i paesi aderenti e nessuna discriminazione fra prodotti importati e prodotti locali. Altro che l’autarchia del km 0. Nel pieno della globalizzazione trionfante, dopo il crollo del Muro di Berlino, a Marrakech nel marzo del 1994 si arrivò alla firma dell’accordo che istituì l’OMC o WTO.
Per arrivare all’ingresso della Cina nel WTO, ci vollero diversi anni. Il vertice decisivo si tenne a Seattle nel 1999 e prese il nome di Millennium Round. A Seattle, la città dove era nata la Microsoft, uno dei simboli della globalizzazione, debuttarono i no-global con idee più urlate che pensate. Si opponevano ad un mondo, quello della rete, in cui si sarebbero tuffati per primi i giovani del mondo intero.
Così, alla fine, nel 2001, USA e UE, che contavano di più fra i 150 paesi riuniti a Seattle, aprirono le porte all’ingresso della Cina nel WTO. Pensarono che la Cina avrebbe commercializzato calzini e mutande di poca qualità, ma nel giro di un decennio si resero conto di aver fatto male i loro calcoli.
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