L’attentato del 9 ottobre dell’82, quando Stefano Gaj Tachè, due anni, fu ucciso dai terroristi palestinesi davanti al Tempio maggiore di Roma, e il sangue di altre 37 feriti scorse sulle pietre che avrebbero dovuto essere il più sicuro rifugio per gli ebrei di Roma, si compì un doppio sfregio alla storia. Quello degli assassini, e quello di chi non lo difese. Come ieri coi documenti alla mano ha scritto Il Riformista in prima pagina, i poteri italiani erano stato avvisati che un attentato era pronto proprio per ammazzare ebrei o israeliani. Lo denunciò, e oggi ce ne sono le carte, Cossiga una quindicina di anni fa, e nessuno ha mai fatto seguito a quella terribile denuncia. Essa implicava la vicenda, non nuova, di un accordo politico, certo di matrice andreottiana, con le organizzazioni palestinesi perché, in cambio della mano libera contro gli ebrei e Israele sul territorio italiano, si astenessero da attacchi contro italiani “innocenti”. Naturalmente era una balla anche questa, perché gli attentati di Fiumicino nel 73 (34 morti), dell’Achille Lauro, di Roma Fiumicino-Vienna, 1985 (19 morti) non guardavano certo per il sottile all’identità delle vittime. Ma era esplicito che il sangue ebraico era comunque una merce di scambio, persino dopo la non lontana Shoah, e dopo che il territorio del Ghetto di Roma era stato marchiato per sempre dalle deportazioni del 43: avanti un altro.
Le stesse pietre si sono sporcate di sangue ebraico. Arafat nello stesso anno aveva parlato alla Camera armato di pistola: Andreotti, padrino della politica filoaraba, gliel’aveva permesso personalmente nell’ambito di una cerimonia europea, mentre quasi solo Spadolini si contrapponeva. In generale si può dire che la furia terrorista dei palestinesi era già un fatto del tutto evidente, rimarcato da stragi di atleti (11 morti, alle Olimpiadi Monaco nel 72), di bambini a Maalot in una scuola ,nel ’74, 31 morti e da innumerevoli altri episodi di sequestro di aerei, di autobus, di esplosioni e spari. Ma in quegli anni si impostava la politica assolutoria e untuosa che ha fatto del mondo palestinese una vacca sacra intoccabile nella ferocia antisemita, nella disonestà, nella violazione interna dei diritti umani. Paura, desiderio di vantaggi petroliferi presso il mondo arabo, queste due furono le ragioni base della politica si “dhimmitudine” che denuncia in tanti studi Bat Ye’or, e che oggi sembra trovare un freno nei patti di Abramo. Ma ieri, come oggi, consentire, acquiescere, negoziare sull’aggressione e la morte degli ebrei è un aspetto classico dell’antisemitismo. Contiene, come nel caso di questo accordo sotterraneo, la segreta convinzione che la loro vita non valga quanto quella degli altri. Quando durante la seconda Intifada ho coperto gli innumerevoli attacchi di terrorismo suicida in Israele, con migliaia di morti, e ho riscontrato in quanta indifferenza e silenzio potessero circondarli, ho sentito che quello era antisemitismo. Quando a Israele viene negato il diritto di autodifesa che è concesso a qualsiasi altro Paese colpito, è antisemitismo. Quando il bambino Stefano Tachè, due anni, è stato colpito sulle scale dello del Tempio, è doppio antisemitismo: quello di chi gli ha sparato, e quello di chi ha negoziato fino a lasciarlo nudo, senza protezione, nella sua tenerissima esistenza di bambino ebreo.
(Articolo ripreso, con il consenso dell’autore, dal GIORNALE del 10/12/2021, a pag. 9, con il titolo “Il sangue degli ebrei svenduto”).
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