Non sappiamo ancora, alla fine, a chi andranno gli 8 miliardi di alleggerimenti fiscali promessi dal governo. Quel che è certo è che la ripartizione ipotizzata – 7 miliardi di sgravi Irpef, 1 miliardo di sgravi Irap – non piace ai sindacati, che vorrebbero che i benefici fossero riservati ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, e non piace a Confindustria, che vorrebbe che gli sgravi fossero maggiori e concentrati sul cuneo fiscale. Da sociologo, sono stupito che, finora, nessuno abbia ipotizzato di convogliare tutte le risorse sulle imprese che aumentano l’occupazione, andando a colpire la diseguaglianza principale del sistema Italia, ovvero la frattura fra chi un lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha.
Ma quanto impattano 8 miliardi sui bilanci delle famiglie?
Un calcolo di larga massima restituisce un mesto risultato: in media, lo sgravio ammonta a un po’ meno di 30 euro al mese.
Meglio che niente, si potrebbe dire. Ma sarebbe più esatto dire: meno di niente.
Per capire perché, dobbiamo fare i conti con il convitato di pietra del dibattito sulla legge di bilancio: l’inflazione. Se ne parla ancora poco, ma la realtà è che già oggi l’inflazione ha rialzato la testa (+3.8%, secondo le ultime stime dell’Istat), e nessuno sa ancora se il rialzo sarà temporaneo o permanente.
Ma, a parità di altre condizioni (ossia: se i redditi nominali restano fermi), una inflazione anche solo del 3% significa una perdita di potere di acquisto di circa 30 miliardi, che assorbirebbe completamente gli 8 miliardi di sgravi promessi. Siamo come commensali che litigano sugli antipasti, senza accorgersi che qualcuno si sta portando via il resto del pranzo.
Per capire la natura della situazione in cui ci troviamo, forse non è inutile ritornare indietro di qualche decennio, ovvero ai tempi dell’inflazione a due cifre, quando, comprensibilmente, l’attenzione dell’opinione pubblica era concentrata sull’erosione continua del potere di acquisto.
Ebbene, come si parlava di inflazione negli anni ’70 e ’80? E, soprattutto, come ne parlavano i sindacati?
Fondamentalmente mediante tre parole-chiave: iniquità, illusione monetaria, fiscal drag.
Iniquità. L’inflazione, come già aveva avvertito Lugi Einaudi, è “la più iniqua delle tasse” perché, riducendo il potere di acquisto, colpisce di più i ceti bassi (che spendono in consumi la maggior parte del loro reddito) che i ceti alti.
Illusione monetaria. L’inflazione, quando si accompagna a un aumento dei redditi nominali inferiore all’inflazione stessa, crea la percezione illusoria di un aumento del reddito in termini reali.
Fiscal drag (drenaggio fiscale). Se non è accompagnata da un abbassamento sistematico delle aliquote fiscali, l’inflazione comporta automaticamente un aumento della pressione fiscale, ossia un prelievo di quote crescenti del reddito.
Riportati a quel che succede oggi, i tre concetti permettono di azzardare una semplice lettura dell’impatto della manovra: i ritocchi delle aliquote mitigano il fiscal drag ma, in presenza di un’inflazione elevata, difficilmente basteranno a neutralizzare la diminuzione del potere di acquisto, che penalizza prevalentemente i ceti popolari.
Ma è verosimile la previsione di un’inflazione elevata per l’anno prossimo?
Penso di sì, per due ragioni. La prima è che, anche ove avessero ragione gli analisti che considerano temporanea la fiammata attuale dei prezzi, difficilmente le cause che ne sono all’origine si spegneranno a breve termine. Vale per i prezzi dell’energia e delle materie prime, vale per le strozzature della logistica, ma vale anche per le difficoltà di trovare personale a tutti i livelli di qualificazione. Siamo abituati, in Italia, ad associare le difficoltà di reperire manodopera alle (indubbie) storture del reddito di cittadinanza, ma gli ultimi mesi ci hanno rivelato che il problema si presenta in tantissimi altri paesi, quasi che una parte dei lavoratori avesse scoperto – con la pandemia – di poter far a meno del lavoro, o del lavoro alle condizioni precedenti l’arrivo del Covid.
La seconda ragione per cui ritengo verosimile, almeno nel breve periodo, il permanere di un’inflazione elevata, è che l’inflazione stessa è un formidabile strumento per alleggerire il peso del debito pubblico. L’inflazione, prima o poi, trascina con sé un aumento dei redditi monetari, che gonfia il Pil nominale e così contribuisce a ridurre il rapporto debito-Pil, da cui dipende la sostenibilità dei nostri conti pubblici.
Che il ritorno dell’inflazione si riveli, alla fine, un fenomeno transitorio oppure no, lo decideranno soprattutto le politiche più o meno restrittive della Fed e della Bce, ovviamente condizionate dalle pressioni dei governi. Ma mi riesce difficile pensare che, in questa partita, l’Italia si schieri a favore dei nemici dell’inflazione. Chiunque ci governerà, sarà ben consapevole che un po’ di inflazione fa bene ai nostri conti pubblici.
Tutto sta a vedere se sarà anche consapevole che, se non è accompagnata da altre politiche che ne neutralizzino gli effetti indesiderati, l’inflazione resta – come avvertiva Einaudi – la più iniqua delle tasse.
Pubblicato su Repubblica del 1° dicembre 2021
(questo articolo è ripreso, su autorizzazione del blog, dal sito www.fondazionehume.it)
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