Nel promuovere un programma di celebrazionicoordinate dall’Amministrazione municipale, il sito https://1600.venezia.it/(attivo mentre scriviamo) informa il pubblico in questi termini: Secondo una tradizione millenaria, il 25 marzo del 421 è comunemente riconosciuto come il giorno di fondazione della città di Venezia, come testimonia la fonte manoscritta del Chronicon Altinate e, in tempi più recenti, Marin Sanudo il quale, descrivendo il grande incendio di Rialto del 1514 nei suoi Diarii, scrive: «Solum restò in piedi la chiexia di San Giacomo di Rialto, la qual fu la prima chiexia edificata in Venetia dil 421 a dì 25 Marzo, come in le nostre croniche si leze».
A sua volta, il sito ministeriale https://www. beniculturali.it/evento/1600-anni-fondazione-della-citta-di-venezia-421-2021 dava un quadro delle finalità perseguite con l’iniziativa, aggiungendo pudicamente un aggettivo (mia la sottolineatura): Il 25 marzo 2021 Venezia celebra i #1600 anni dalla sua mitica fondazione tra le acque della laguna. Nell’arco di un anno fino al marzo 2022 il Comitato ufficiale presieduto dal Comune di Venezia celebrerà la cultura, l’artigianato, l’arte e l’architettura, il ruolo diplomatico e politico giocato da Venezia nel corso della sua lunga esistenza. ‘Mitica’ dunque la fondazione, anzitutto perché il 25 marzo è un giorno tra i più significativi del ciclo liturgico, quando Mariapronuncia il «fiat» che segna il principio della storia della Salvezza; coincidente in varie regioni d’Italia e d’Europa, ben oltre i secoli del medioevo, con l’apertura del calendario civile secondo il cosiddetto ‘stile dell’Incarnazione’.
Questa data proveniva dal calcolo relativo ad una precisa durata della gestazione della Vergine rispetto al Natale del Signore – evento trasferito dal 6 gennaio al 25 dicembre per scelta della Chiesa di Roma solo alla metà del IV secolo, andando così a sovrapporsi al giorno in cui nel tardo impero tutti quanticelebravano la ‘nascita del dio Sole’ (dies natalis Solis invicti). Si rispecchiavano così tra loro l’equinozio primaverile e il solstizio invernale, due fasi astronomiche percepite dalle popolazioni e dalle culture di ogni tempo e paese quali momenti di crisi e trapasso, in corrispondenza del punto in cui la durata della luce eguaglia quella delle tenebre.
L’astro diurno otterrà poi una perenne rivincita sul buio della notte. Lo stesso 25 marzo, corrispondente al 14 di Nisan del calendario ebraico, era pure compreso in una piccola rosa di giorni assunti dai Cristiani dei primi secoli per celebrare la Pasqua e Resurrezione di Gesù – ben oltre l’anno 325, allorché il Concilio di Nicea deliberò faticosamente per la data mobile della ricorrenza.
Non sarà un caso che la religione da poco istituzionalizzata intrecciasse, in un viluppo di sottaciute relazioni reciproche, eventi astronomici e sentimenti mistici. Sappiamo da fonti diverse che, almeno sino ad età giustinianea, cadeva appunto in quel giorno di primavera una delle feste tradizionali più popolari, diffuse e persistenti tra le comunità che abitavano l’area mediterranea antica: gli Hilaria in onore di Attis, il figlio-amante della magna mater deorum. Era infine concesso libero sfogo alle manifestazioni di esultanza che salutavano il ritorno alla vita del dio, dopo i tempi scanditi dalla sua passione cruenta, dalle cerimonie della sepoltura e dal lutto della veglia funebre. L’albero rituale del supplizio del pastorello frigio si sarebbe così saldato con lo storico legno, strumento della salvezza per l’intero genere umano.
Data altamente ‘simbolica’, il 25 marzo, punto del calendario fitto di senso già prima di avocare a sé la ricorrenza dell’Annunciazione: a Venezia questa non fortuitasimultaneità del fatto che VII Calendas Aprilis primordia urbis coepisse e che le Scritture attestino eodem die ipsum quoque dei filium in Virginis utero concoeptum era enfatizzata quanto basta già dal Sabellico (1487). Per converso, il 421 d. C. rinvia precisamente ad una sequela di cronologia ‘reale’; è un numero con cui ci sembra di poter fare i conti sul serio, onde stabilire paralleli, trovare motivazioni, fornire spiegazioni; che non sia solo frutto di calcoli bizzarri, svolti a mente fredda da antiquarii eruditi, come appaiono il 1132 a. C. per la fondazione di Padova da parte del troiano Antenore (ma girano pure cifre oscillanti tra il 1185 e il 1118), o lo stesso fortunatissimo 753 dei Fasti varroniani a Roma condita: si tratta in quei casi di punti d’inizio da relegare in epoche caliginose, anteriori ad ogni documentazione diretta o facoltà di controllo storico.
Sulle ragioni per cui le cronache tardo medievali tracciano certi lineamenti sugli albori leggendari di Venezia e mettono in circolo ipotesi improbabili avvalorando proprio questa fantasiosa ‘data di nascita’ per la città, abbiamo potuto udire nelle scorse settimane la voce del presidente Ortalli in assemblea (Venezia 412: la nascita del mito), quindi leggere le note informatissime del professor Orlando sulle pagine online de La Polifora (Oltre i miti di fondazione.Le origini di Venezia). Nulla c’è da aggiungere in proposito; si capisce che quanti lavorarono per mettere insieme il falso desideravano ribadire una (presunta innata) aspirazione alla libertà degli abitanti del litorale veneto, collegandola all’arrivo di Attila in Italia: l’essere sfuggiti ai colpi del flagellum Dei, strumento di un disegno provvidenziale volto a castigare gli uomini per le loro colpe, doveva interpretarsi come segno di benevolenza per i profughi nelle isole lagunari; un privilegio celeste quasi un annuncio di grandi destini a venire, per la nuova città.
Peccato che il capo degli Unni fosse appena quindicenne all’altezza del 421, laddove le distruzioni da lui causate ad Aquileia, Concordia, Altino, Padova, ecc. non ebbero luogo prima della metà di quel secolo crudele. Avvenimenti peraltro ritenuti dalla memoria popolare sino all’altro ieri, se di un ‘tesoro di Attila’ nascosto da qualche parte lì attorno ode ancora favoleggiare, nelle cucine di Fratta, il giovane Carlino Altoviti. Quanto al (creduto ma concreto) ‘trono di Attila’, esso fa mostra di sé nei giardini della basilica di Torcello: un manufatto di pietra, esposto alle intemperie, reso ormai lucido dai turisti che vi si siedono sopra per la foto ricordo.
A firma di Giusto Traina, professore siciliano che insegna a Parigi, usciva qualche anno fa (Laterza, 2007) un tascabile di (meritato) successo. L’intestazione originale 428 dopo Cristo. Storia di un anno, mantenuta nelle versioni spagnola (2010) ed ellenica (2011), appare meno efficace di quelle francese e inglese (entrambe uscite nel 2009), caratterizzate da identici sottotitoli, rispettivamente: Une année ordinaire à la fin de l’empire romain e An Ordinary Year at the End of the Roman Empire. L’idea di base del libro, come pure i suoi scopi, sono chiari da subito: raccogliere e narrare quanto può essere utile in una cronaca – determinata, specifica, relativa all’esistenza concreta dei singoli individui vissuti allora – e immetterlo nel di una macrostoria tumultuosa, densa di mutazioni epocali che segnano la dolorosa agonia del mondo antico.
Come il 428, anche il ‘nostro’ 421 – forse perché le fonti storiografiche sono desolatamente avare e scarse – risulta un anno povero di vicende memorabili; le tavole cronologiche del periodo tardo-antico, persino i più minuziosi ‘Timelines of Roman History’, faticano a registrare la coppia di eventi dinastici cui alludiamo in partenza.
Il primo, festoso, è il matrimonio celebrato il 7 giugno a Costantinopoli che vide Teodosio II, il ventenne Augusto della parte orientale, prendere in moglie la sua coetanea Atenaide; per l’occasione, la bella e coltissima giovane, figlia di un filosofo pagano, si convertì (a differenza di Ipazia, uccisa ad Alessandria nel marzo 415) e assunse il nome di Aelia Eudocia. Del secondo, luttuoso (il funerale celebrato a Ravenna per il co-imperatore d’occidente Costanzo III), diremo invece più avanti.
Il 421, se può definirsi un ‘anno qualsiasi’, giunse tuttavia preceduto da tre lustri di eventi tra i più indimenticabili ad avviso degli storiografi, tra i più disastrosi agli occhi dei contemporanei. Nel 410, otto secoli esatti dopo l’ingiuria subìta ad opera dei Galli Senoni, Roma era stata assediata e affamata per lunghi mesi, poi violata e saccheggiata da nuovi ‘barbari’ di stirpe germanica. Il fatto suscitò larghissima emozione e grave sconcerto, ma non dové arrivare imprevedibile: la crisi militare durava ormai da alcuni decenni.
Alla morte improvvisa di Teodosio il Grande, nel gennaio 395, l’Impero era stato diviso in due parti affidate ai figli maschi del defunto: la orientale al maggiore (Arcadio), la occidentale al minore (Onorio), sotto tutela del comandante degli eserciti, Stilicone.
La situazione militare era difficile un po’ dovunque, ma fu soprattutto l’Italia a subire dapprima la pressione dei foederati Visigoti, condotti da Alarico. Nel 402 e 403 la valle Padana fu per due volte invasa, il che rese necessario spostare la sede del governo da Milano alla più sicura Ravenna.
Il generalísimo riuscì a respingere entrambi gli attacchi, ma nell’estate del 406 una nuova poderosa armata di Goti – anzi una vera Volkswanderung di cui facevano parte Vandali, Alani, Burgundi, Suebi e forse Unni – aveva potuto spingersi sino a Fiesole, dove fu annientata dalle forze imperiali.
La tecnica, la disciplina, insomma la superiorità campale delle milizie romane avevano prevalso ancora una volta: e tuttavia le eccezionali esigenze di uomini per la difesa della Penisola avevano sguarnito i confini esterni. Il 31 dicembre del 406 il Reno era ghiacciato all’altezza di Magonza e il limes cedette sotto la spinta di masse di popoli germanici che si sparsero dapprima nei territori delle Gallie desolando città e campagne, poi si avviarono ad occupare in via permanente gran parte delle Spagne (409). In quegli stessi anni Onorio fece ritirare le legioni dalla Britannia e abbandonò Londinium in mano a comandanti locali insubordinati, che tentavano di resistere alle scorrerie di Pitti e Scoti da nord e da ovest, di Angli, Sassoni e Juti dal settentrione europeo.
Giova non trascurare che la perdita del controllo sopra una qualsiasi provincia implicava, per il governo di Ravenna, mancati introiti fiscali che servivano al funzionamento del complessivo apparato della res publica; ogni decurtazione finanziaria comportava danni sensibili, indebolendo anzitutto l’efficienza della macchina bellica; comprometteva la cura e la manutenzione di strade e porti, acquedotti e cloache; nuoceva all’operatività di istituzioni sanitarie e scolastiche, di tribunali e mercati, di terme e teatri e luoghi di svago; insomma, faceva deperire la qualità della vita comune per milioni di cives Romani.
Nel corso del 408 le conseguenze della catastrofe in Occidente si ripercossero sul centro del potere; il 1° maggio, a Costantinopoli, moriva di malattia Arcadio, cui succedeva il settenne Teodosio II; in Italia diveniva così Augustus senior Onorio, il quale decise di liberarsi del suo tutore con un golpe che portò all’assassinio a tradimento di Stilicone, preceduto dal massacro dei comandanti militari a lui fedeli e dei più alti magistrati in carica. La strage coinvolse molte migliaia di mercenari, di stirpe germanica e di religione ariana: i sopravvissuti andarono a ingrossare le fila dell’esercito di Alarico, che agli inizi del 409 si ripresentò al di qua delle Alpi. Non esistevano più seri baluardi o linee di resistenza, sicché Roma finì presto sotto assedio. Dopo mesi di penose trattative, furono aperte al re e ai suoi Visigoti le porte delle Vrbs aeterna.
Il bottino razziato nell’occasione fu immenso, ma la preda forse più preziosa doveva considerarsi la diciottenne Galla Placidia, l’ultima figlia di Teodosio, che nel 411 andò sposa ad Ataulfo – il successore di Alarico, defunto nel frattempo a Cosenza e seppellito nel «Grab im Busento». I Goti si spostarono verso la Gallia, dove la coppia ebbe un figlio maschio, cui toccò il benaugurante nome di Teodosio e la malasorte di morire a pochi mesi, insieme alla speranza di fondere vecchi e nuovi abitanti dell’impero in un unico Reich. Da sempre, tra gli scopi dei capi militari germanici, prima di ogni ricchezza in denaro veniva l’acquisizione di incarichi ufficiali, che comportavano sia diritti di insediamento territoriale per tutto il loro popolo, sia regolari percorsi di promozione e nobilitazione, utili nella propria ascesa entro la società romana.
Nel decennio successivo all’excidium urbis, Onorio ebbe la fortuna di trovare un valido generale di stirpe illirica e di nome Costanzo (era nato a Naisso, come Costantino, nel 370): capace di eliminare man mano tutti gli usurpatori che ambivano al potere imperiale, come di sconfiggere più volte i ‘barbari’ insediatisi entro i confini romani, recuperando molti dei territori perduti in Gallia e nella penisola iberica. Lo stesso Ataulfo cadde vittima di una congiura (415), quindi Galla Placidia poté rientrare a Ravenna, pronta per nuove nozze (417) col maturo magister militum occidentale.
Dopo la nascita di due figli (Onoria e Valentiniano, futuro imperatore dal 425 al 455), Costanzo fu promosso al rango di Augusto suo collega da Onorio (8 febbraio 421), però morì improvvisamente (e misteriosamente) il 2 settembre di questo stesso anno, ad appena sette mesi dalla elevazione.
Ora, per quanto possiamo affermare con cognizione di causa, nulla di memorabile dovettero vedere le isole che costituiscono l’insediamento attuale di Venezia nell’anno 421, di cui festeggiamo la sedicesima ricorrenza centenaria. In più, l’intera area dell’Italia nord-orientale, e in particolare le città più vicine al litorale come Altino e Padova, restarono indenni da scorrerie o altri eventi bellici traumatici. Potrà al massimo incuriosirci il fatto che, secondo una veneranda ipotesi prescientifica (la troviamo formulata ad esempio nel trattato Della laguna di Venezia di Bernardo Trevisan, 1715), ripresa spesso anche in tempi attuali, lo scomparso insediamento altomedievale di Constantiacum, a nord-est di Torcello, avrebbe preso nome dall’imperatore Costanzo III. Proprio l’ultimo marito di Galla Placidia, collega di Onorio, padre dell’ultimo dei Teodosidi, cui spettò nel settembre del 421 il funerale menzionato nel titolo.
*Paolo Mastandrea è professore ordinario di Lingua e letteratura latina nell’Università Ca’ Foscari di Venezia e socio effettivo dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti421 Dopo Cristo:
Articolo tratto da:«La Polifora» n. 16, ottobre 2021, www.istitutoveneto.org/lapolifora/016/
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