Al giornalista che in conferenza-stampa a Glasgow gli ha chiesto se pensasse di diventare, un domani, leader mondiale di una nuova politica economica di investimenti, Mario Draghi ha risposto col suo tipico sorrisetto alla Luciano Salce: “Per carità…”
Beh, immaginiamo cosa direbbe a chi gli andasse a proporre la leadership di una rispettabilissima maggioranza larga, magari riformista ed europeista, con la quale partecipare alla prossima tornata elettorale, una volta che sia stato nominato il nuovo Presidente della Repubblica e l’attuale legislatura sia giunta al termine naturale (nessuno ma proprio nessuno al momento auspica elezioni anticipate).
Davvero qualcuno seriamente pensa che il nostro Premier, invocato nel momento della massima emergenza dal secondo dopoguerra in poi, voglia trasformarsi in un personaggio della commedia italiana, finendo nel tritacarne della “politique politicienne”?
La vicenda, mutatis mutandis, di Mario Monti alle elezioni del 2013 non ha insegnato proprio niente?
Chi oggi scrive o parla in tv, immaginando un partito di Mario Draghi o più modestamente una coalizione liberal-democratica che comprenda il Pd e Forza Italia, Italia Viva e Azione, il M5S e Leu, ritiene che solo un secondo governo Draghi garantirebbe la corretta realizzazione delle riforme previste dal Pnrr.
Non è certo questo un argomento privo di concretezza e ragionevolezza. Ma il punto dolente è che tale ipotesi prevede necessariamente il passaggio da governo d’emergenza a governo politico; e quindi la trasformazione di Mario Draghi da uomo della provvidenza in leader di una sola parte, per quanto larga la si possa concepire, con la possibilità che si ripeta l’incubo di Scelta Civica del prof Monti.
Più lungimirante e realistica mi sembra l’idea che Pietro Ichino ha spiegato in un intervento sul suo sito, ripreso anche da Solo Riformisti. In sintesi, il prof Ichino dice che, proprio per garantire continuità alle politiche dell’attuale governo Draghi, la cosa migliore sarebbe che egli andasse al Quirinale per i prossimi sette anni; e da lì esercitasse la sua indiscutibile leadership per la costruzione di una nuova Unione Europea, dopo aver indicato al Parlamento italiano il suo successore nell’attuazione del Pnrr.
Che cosa, dunque, risulta più auspicabile: mantenere Mario Draghi alla guida del governo per un altro anno, fino alla fine della legislatura, e poi vedere il salto nel buio con nuove elezioni; oppure la certezza di averlo per un lungo settennato in un ruolo che, già con Napolitano, è diventato (quasi) quello del capo di una Repubblica semi-presidenziale?
Vorrei aggiungere un ulteriore argomento – un’analogia di carattere storico che sembrerebbe di buon auspicio – a favore della sua permanenza al colle del Quirinale per i prossimi anni.
C’è già stata nella storia d’Italia una stagione di ricostruzione dopo una catastrofe di portata mondiale: ovviamente si parla degli anni che vanno dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana fino alla metà degli anni Cinquanta, quelli che poi vennero ricordati come il “boom” economico. Ebbene, il Presidente della Repubblica di quel grande settennato fu un economista liberale ed europeista, accademico, già Governatore della Banca d’Italia e vice-Presidente del Consiglio, Luigi Einaudi, del quale sono appena trascorsi sessant’anni dalla morte (30 ottobre 1961).
Luigi Einaudi, in seguito alle prime elezioni politiche della Repubblica, nel maggio 1948 incaricò Alcide de Gasperi, dando così il via a quei governi che rappresentarono la migliore garanzia per il corretto utilizzo dei finanziamenti del Piano Marshall (il Recovery plan dell’epoca) e il conseguente rilancio della nostra economia nazionale con gli straordinari risultati ottenuti.
Il prestigio internazionale, la specifica formazione culturale nonché la comprovata capacità di leadership fanno di Mario Draghi – esattamente come per Luigi Einaudi allora – la persona giusta che dovrebbe guidare l’Italia durante la sua seconda ricostruzione.
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