…Era l’inizio del 2020 e una sera, come tutti, ebbi voglia di vedere con i miei occhi il mondo deserto, Napoli deserta, un ossimoro, deserte le viuzze della movida, deserta Toledo dritta e lunga, andavo in giro facendo foto, avvertivo un senso mischiato di malinconia e sgomento. Tornai a casa come si torna in un rifugio, salii le scale vuote e silenziose fino al mio appartamento, Raffaella leggeva, Melizza era chiusa nella sua algida compostezza, la televisione era accesa, vidi sullo schermo il volto appuntito di Giuseppe Conte, l’ennesima conferenza stampa, Conte spiegava agli italiani cosa potevano fare e cosa no, mi venne un brivido, impossibile non pensare al Grande Fratello, a quello che può succedere quando la politica diventa puro comando e obbedienza totale. Un virus cinese stava divorando i corpi, falciava le sue vittime, ma vittime eravamo tutti, deserto il parlamento, chiusa l’informazione, scomparsi anche i duelli televisivi, vietati gli incontri, vietati i corpi. Sembrava Schmitt. Toccavo con mano lo stato di eccezione, non l’avevo vissuto nel dopoguerra, né durante gli anni di piombo, lo vivevo ora. Lo imponeva il virus, lo dettava il governo. Sembrava la morte della politica.
In quei giorni vuoti per decreto, mi capitò di rovistare tra le carte di famiglia, lettere, appunti, foto in bianco e nero. E trovai il diario di prigionia di mio padre, piccoli fogli tenuti assieme da un nastro di seta sbiadita, una scrittura minutissima. Mi fermai a leggere, finii per ripercorrere la sua vita, ne fui stupito, era stata così diversa dalla mia, così incomparabilmente più difficile, più drammatica. Era nato nel 1899 ed era stato chiamato alle armi all’indomani di Caporetto, aveva fatto la guerra a diciotto anni, in seguito non era stato né fascista né antifascista, aveva vissuto la sua vita, piccolo imprenditore, borghese, felice, ma poi il paese l’aveva voluto ancora in guerra, era partito per la seconda volta, aveva lasciato una moglie molto amata e i tre figli, i miei fratelli. E il 9 settembre 1943, il giorno dopo l’armistizio, era stato fatto prigioniero dagli ex-alleati tedeschi e chiuso nei campi di internamento dell’Europa orientale, nei pressi del Baltico, luoghi remoti. Ci era rimasto quasi due anni, soffrendo il freddo e la fame, molti compagni erano morti, lui era sopravvissuto, ma quando infine aveva potuto riabbracciare la famiglia era ormai un uomo fragile, esausto. Lessi il suo diario ammutolito. Non che ignorassi quella storia. Tuttavia soltanto ora ne percepivo la drammaticità. Mio padre non aveva scelto di misurarsi con la politica, ma dalla politica la sua esistenza era stata segnata in modo profondo, la politica dei suoi tempi era feroce, era la lotta all’ultimo sangue tra fascismo, comunismo e democrazia. Anche lui, quieto e riservato, era finito nella guerra civile che aveva infiammato l’Europa tra 1914 e 1945.
Fu durante lo stato d’eccezione della pandemia e leggendo le pagine di quel diario che decisi di scrivere sulla passione politica. Non un saggio storico, ma il racconto della vita di una ventina di donne e uomini che – in Europa, tra Ottocento e Novecento – avevano scelto di dedicare la propria esistenza alla loro idea di politica, che avevano messo in gioco la vita per la libertà dei popoli, per la difesa della propria nazione, per il comunismo, per il fascismo, per la rivoluzione, per la controrivoluzione. Individui che il fuoco della politica ce l’avevano dentro e ad essa avevano sacrificato le famiglie, l’esistenza, il corpo. Nel libro racconto le storie di chi come Santorre di Santarosa andò a morire nel 1825 in Grecia combattendo contro gli ottomani e le storie dei mazziniani che nel 1852 furono impiccati a Mantova dagli austriaci, le storie dei giovani che finirono volontari nelle trincee insanguinate della Grande Guerra, come Ernst Junger e Carlo Emilio Gadda, le storie dei russi che come Viktor Sklovskij fecero la rivoluzione e dei tedeschi che come Ernst von Salomon lottarono e uccisero per fermare la rivoluzione, le storie degli intellettuali che come George Orwell e Arthur Koestler presero parte alla guerra civile spagnola e dei partigiani della seconda guerra mondiale, quelli dalla parte delle democrazie come Marc Bloch e quelli dalla parte del fascismo, come Carlo Mazzantini. Le storie dei terroristi italiani, Mario Moretti, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro. Le loro vicende sono gloriose, dolorose, disperate, straordinariamente umane. Santorre era andato a morire in Grecia, sebbene nessuno lo volesse. Wittgenstein aveva sfidato la morte per riconciliarsi con un’umanità mai amata. Sophie Scholl aveva affrontato a vent’anni la ghigliottina di Hitler sebbene adorasse le gioie della vita. Carlo Mazzantini aveva combattuto i partigiani con la consapevolezza furibonda dello sconfitto. Ho ricostruito le loro storie attraverso diari, lettere, memorie, cioè attraverso le loro stesse parole. Nei mesi della pandemia, quando ho scritto il libro, le biblioteche erano chiuse ma ho trovato i documenti nei ricchi giacimenti librari del web, mi sembrava che quegli uomini e quelle donne con il fuoco dentro riempissero il silenzio del mio studio, che popolassero il mondo vuoto del lockdown, l’angoscia dello stato d’eccezione. Ero attratto – più che dalle loro idee – dalla scelta estrema che avevano fatto, dall’intensità temeraria che avevano mostrato le loro esistenze. Ma di più. Mi sembrava che dessero una risposta ai miei dubbi di sessantottino pentito, che restituissero corpo a una politica ormai sbiadita e remota, che fossero un antidoto alla vacuità del discorso pubblico teletrasmesso. Pensavo ai miei genitori, schiacciati come molti dai terribili anni del ferro e del fuoco, e pensavo che quelle donne e quegli uomini testimoniassero un’alternativa, seppure estrema, la capacità di raccogliere la sfida della politica. Si erano gettati in avventure dall’esito ignoto, al tempo stesso egoisticamente e altruisticamente. Talvolta avevano pagato con la vita, ma la vita, finché possibile, l’avevano vissuta in modo straordinariamente pieno. Individui difficili da capire con gli occhi del Terzo Millennio, di generazioni vissute nella pace domestica e talvolta addormentate dal benessere. Gente impossibile da giudicare con il metro della morale corrente, eroi positivi o negativi, patrioti o terroristi. Gente che aveva testimoniato, semplicemente, la forza di una passione.
Paolo Macry – Professore Emerito di Storia Contemporanea dell’Università Federico II di Napoli
Graziano Bonacchi
Leggerò il libro. La presentazione è molto bella!