Lo scrittore britannico Aldous Huxley, celebre per i suoi romanzi di narrativa distopica, affermava che il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia stessa ci insegna. Triste ma, purtroppo, vero.
L’avvenimento che oggi vorrei ricordarvi ne è l’ennesima conferma: 1.917 persone morirono in quella circostanza. Eppure, vien da dire, invano.
Era il 9 ottobre del 1963.
Quella sera gli abitanti di Erto e Casso, due paesi che sorgono nella valle del torrente Vajont, in provincia di Belluno, si godevano il riposo dopo una giornata di duro lavoro, faticoso come lo è in montagna. A monte di questi paesi sorgeva quella che allora era la più grande diga del mondo: la diga del Vajont.
Alle 22 e 39 una frana di 270 milioni di metri cubi si staccò dal fianco del Monte Toc, che costeggiava la diga, precipitando nel lago artificiale appositamente creato. Tutta la costa della montagna, larga quasi tre chilometri e costituita da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante, provocando addirittura una scossa sismica.
La frana non colpì direttamente la diga, che infatti non crollò. Tuttavia, riempendo l’invaso di detriti, fece sì che la massa liquida si innalzasse, formando un’onda alta 250 metri, che si divise in tre parti. La prima colpì il comune di Casso. La seconda si diresse verso Erto. La terza onda, di 50 milioni di metri cubi d’acqua e di roccia, scese a valle verso Longarone a 80 km all’ora, creando un vento impetuoso e sempre più intenso, che aveva una potenza, pensate, pari a quella dell’onda d’urto creata dalla bomba di Hiroshima.
Allo sbocco della valle del Vajont l’onda era alta 70 metri.
Gli abitanti di Longarone, dopo l’interruzione della corrente elettrica, videro il cielo illuminarsi di lampi: erano gli elettrodotti austriaci in corto-circuito che, prima di esser divelti dai tralicci, illuminarono a giorno la valle. Subito dopo arrivò il vento, che toglieva il respiro. Alle 22 e 43, quattro minuti dopo la frana, l’onda piombò su Longarone, polverizzando persone e case. Il livello del fiume Piave si alzò di 12 metri e, dopo 15 minuti, l’onda di riflusso tornò a spianare tutto, trasformando il paesaggio in una brulla spianata di fango. In totale morirono 1.917 persone, di cui 487 bambini e ragazzi; 451 vittime non sono mai state ritrovate.
Le vicende che portarono a questa immane tragedia furono lunghe e lastricate da errori, superficialità e irresponsabilità.
L’idea di sfruttare le acque del Vajont per fini economici risale al 1900, quando un piccolo industriale, Gustavo Protti, presentò la domanda per la costruzione di una piccola diga.
Ma presto l’idea di un maggior utilizzo si fece strada in alcuni imprenditori. Fu così che l’ing. Carlo Semenza (che firmerà poi tutti i successivi progetti, fino all’ultimo) presentò nel 1929 un progetto per la costruzione di una diga che avrebbe dovuto raggiungere i 130 metri di altezza e contenere un invaso di oltre 33 milioni di metri cubi d’acqua. Nel 1937 venne presentato un nuovo progetto, ancora più faraonico, che prevedeva la costruzione di una diga di 190 metri di altezza, in grado di creare un bacino di 46 milioni di metri cubi d’acqua. Infine, nel 1952, a seguito di un decreto presidenziale, si diede il via al progetto del “Grande Vajont”. L’altezza dell’opera era stata portata a 263 metri, facendo della struttura la diga più grande del mondo.
Sin dall’inizio dei lavori gli abitanti della vallata espressero molte perplessità, ben consapevoli della fragilità della montagna sovrastante l’invaso artificiale.
Già durante i lavori di costruzione si notarono movimenti del suolo e smottamenti. Non è certo un caso che il nome Toc, attribuito al monte, sia l’abbreviazione di “patoc”, che in friulano significa marcio. Nomen omen, insomma.
La SADE, società costruttrice, a seguito di questi segnali di allarme chiese una ulteriore perizia geologica a Leopold Müller, ingegnere geotecnico fondatore della scuola di Salisburgo. L’austriaco effettuò opportuni carotaggi, stabilendo che sul monte Toc si trovava una frana antica larga un paio di chilometri, profonda centinaia di metri.
Come se tutto ciò non fosse sufficiente il 4 novembre 1960 una prima frana di 800.000 metri cubi di roccia precipitò nel lago artificiale. Segnale perlomeno inquietante, ma evidentemente non sufficiente ai fini di un ripensamento.
Una giornalista cominciò ad indagare sulla diga e riportò i fatti e le preoccupazioni degli abitanti della zona: si chiamava Tina Merlin. A causa di uno dei suoi articoli venne accusata dalla società costruttrice Sade di “diffondere notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” e rinviata a giudizio, dove peraltro venne assolta in quanto nelle sue denunce “non vi sarebbe nulla di falso, esagerato o di tendenzioso”.
A seguito dei preoccupanti segnali nell’aprile del 1963 vennero effettuate prove di invaso e svaso, con successivi riempimenti e rapidi svuotamenti del bacino. Anche questi risultati avrebbero dovuto far riflettere. Al crescere del livello dell’acqua diminuiva infatti la coesione tra le rocce, mentre il rapido svuotamento del lago indeboliva ulteriormente la compattezza.
Nei primi giorni di quel tragico ottobre gli abitanti di Erto e Casso videro i pini e i larici inclinarsi verso il lago. Sulle strade comparvero buche profonde ed irregolari. Il 7 ottobre, Guglielmo Celso, sindaco di Longarone, contattò ripetutamente Prefettura e Genio Civile esprimendo la propria preoccupazione: da questi ricevette l’invito a non provocare inutili allarmismi.
Si giunse, quindi, alla notte del 9 ottobre: il più grande disastro mai avvenuto in Europa.
Il tentativo di insabbiare cause e responsabilità fu immediato e ben orchestrato.
In questo fu pienamente complice la stampa italiana, da subito pronta ad attribuire alla fatalità e a un destino crudele la responsabilità di quanto occorso. Giorgio Bocca, tra i molti, si prodigò in questa direzione: “Non c’era niente da fare, non ci sono rimorsi, non ci sono colpevoli. Ci siamo solo noi, i moscerini, che vogliamo (…) dichiarare guerra alla natura”.
Solo la stampa estera raccontò le responsabilità: con gli articoli del New York Times, dell’Herald Tribune e di Le Monde emerse chiaramente la verità. Ma a quei tempi non c’era internet e quasi nessuno leggeva i giornali stranieri.
Da una così immane strage sortirono in sede giudiziaria condanne irrisorie. Di tutti coloro che furono imputati solo due furono condannati: l’ingegnere capo Alberico Biadene a cinque anni (con tre di condono) e Francesco Sensidoni, membro della commissione di collaudo, a tre anni e otto mesi (anch’egli con tre di condono).
Quella tragedia, purtroppo, resta una lezione inascoltata in un’Italia di ponti che crollano, di frane che distruggono, di montagne che si sfaldano a ogni pioggia e di fiumi che si fanno strumento di morte a ogni perturbazione.
Un Paese dove ancora ci si fa beffe della sicurezza e l’incuria svetta vincente, brandendo lo stendardo fasullo della carenza di risorse. Sotto la bandiera unificante ed umiliante della corruzione.
Per questo oggi è ancora inascoltato il grido delle vittime del Vajont.
Un urlo strozzato nella gola dal vento e dalla furia delle acque. Ma soprattutto dalla pavida incoscienza e dalla disonestà ancor più radicatesi.
Ascoltiamo quel grido, affinché si faccia monito.
Pallini Luciano
Fa emozione visitare la diga ed il Museo del Vajont a Longarone. La domanda che da sempre mi pongo è perché l’ENEL, che dal 1962 gestiva l’impianto dopo la nazionalizzazione, no svuotò la diga di cui era nota la pericolosità. Tant’è che alla fine dei processi i danni furono ripartiti tra Montedison (ex SADE), ENEL e Stato italiano