Assistenza agli anziani, famiglia e welfare. Sono questi i temi al centro dell’intervista che la Fondazione Alberto Sordi ha realizzato con la nostra direttrice Franca Maino, Professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, dove insegna “Politiche Sociali e del Lavoro”, “Politiche Sanitarie e Socio-sanitarie” e “Welfare State and Social Innovation” (qui il profilo completo). Ve la proponiamo di seguito.
Professoressa, lei dirige il Laboratorio Percorsi di secondo welfare: può, in sintesi, spiegarci la vostra missione le attività che proponete?
Il nostro è un Laboratorio di ricerca (legato all’Università degli Studi di Milano) che si occupa delle trasformazioni dei sistemi di welfare con una particolare attenzione al contributo che anche attori non pubblici (organizzazioni non profit ma anche imprese, parti sociali, assicurazioni) possono fornire per contribuire al rinnovamento dei sistemi di protezione sociale. Oltre alle attività di ricerca ci occupiamo di fare informazione su questi temi attraverso il nostro sito web, che dal 2015 è anche una testata giornalistica.
Il concetto di “secondo welfare” cosa definisce?
Con il termine “secondo welfare” intendiamo l’insieme di interventi che si affiancano a quelli garantiti dal settore pubblico – il “primo welfare” – per offrire risposte innovative a rischi e bisogni sociali che interessano le persone e le comunità. Si tratta di interventi realizzati tramite risorse di natura privata di una moltitudine di attori. Questi agiscono spesso in reti locali, ma sono anche aperte alle collaborazioni per fornire mix di protezione e investimenti sociali. Il secondo welfare si è sviluppato per affrontare la sempre più evidente crisi dello Stato sociale, in forte difficoltà nell’affrontare molti problemi che interessano i cittadini. Le ragioni di tale crisi sono molteplici. Tuttavia, si possono individuare alcune macro-dinamiche che più di altre determinano questa situazione. Tra queste ritroviamo: mutamenti socio-demografici epocali, scarsi investimenti pubblici per affrontarli e la crisi pandemica legata al Covid-19 che ha aggravato problemi già presenti.
Oggi, a seguito dell’allungarsi della vita media, gli anziani nonni possono essere generatori di bisogni di conciliazione o risorsa per un equilibrio lavoro-famiglia: che cosa implica ciò per le famiglie?
Gli anziani che invecchiano, non necessariamente in buona salute e sempre più soli, generano bisogni di conciliazione per le famiglie, per le imprese e per il welfare locale. Gli anziani, soprattutto nella fascia d’età tra i 65 e i 75-80 anni, possono però rappresentare una risorsa rispetto ai bisogni di conciliazione delle famiglie, oltre che per la comunità.
Proprio i nuovi bisogni delle famiglie stanno contribuendo a ridefinire il ruolo degli anziani in quanto nonni. Queso tema l’ho approfondito – insieme alla collega Maria Novella Bugetti – nell’ultimo Quaderno della Fondazione Marco Vigorelli). L’aumento della speranza di vita e il crescente investimento nell’invecchiamento attivo consentono ai più anziani una qualità di vita sempre migliore lasciando loro sempre più tempo ed energie da dedicare alla cura dei nipoti e più in generale da mettere a disposizione dei propri figli quale risposta alle esigenze di conciliazione della vita lavorativa e personale. Questo è tanto più possibile quanto aumenta la speranza di vita in buona salute.
Ma non è solo la disponibilità di tempo degli anziani a farne dei nonni pronti ad aiutare i loro figli. Spesso sono le difficoltà economiche che molte famiglie si trovano ad affrontare, come ad esempio la crisi economico-sociale del 2008 o l’attuale pandemia da Covid-19, a determinare il ricorso ai nonni. Questi assumono il ruolo di “baby-sitter” o rappresentano un’importante fonte di sostegno economico, grazie alle pensioni che percepiscono.
Si comincia a parlare di variante della generazione sandwich: perché ritiene che il welfare state nazionale e locale dovrebbero investire su di essa? E in che modo?
L’invecchiamento demografico e la trasformazione della struttura familiare che sta portando ad un numero sempre più alto di famiglie di piccole dimensioni – perché il numero dei componenti continua a diminuire – mettono in guardia sul fatto che la cosiddetta generazione sandwich (madri che si trovano a sostenere carichi di cura verso i figli e al contempo verso i genitori) sembra allungarsi fino ad inglobare i nonni e le nonne (ancora giovani o comunque attivi), che hanno sempre più compiti di cura verso i nipoti, i figli e i genitori molti anziani, quei “grandi vecchi” il cui numero è in aumento anche nel nostro Paese.
Una generazione di anziani che, nonostante l’età, si vede costretta ad occuparsi della casa, della cura dei nipoti e dell’assistenza ai genitori, i bis-nonni, non più autosufficienti. Oggi sta quindi crescendo una variante della generazione sandwich che coinvolge un’ampia fetta di popolazione tra i 55 e i 75 anni con nipoti, figli e genitori, intorno a cui finisce per ruotare la capacità di conciliazione delle famiglie.
Bisogna investire su due politiche: invecchiamento attivo e conciliazione
Rispetto a questa sfida è necessario investire su due fronti: da un lato sulla prevenzione del decadimento fisico e cognitivo attraverso politiche di invecchiamento attivo e dall’altro rafforzare nel nostro Paese le politiche di conciliazione così da sollevare gli anziani da compiti di cura che non spetterebbero loro.
L’integrazione tra le varie forme di welfare è un obiettivo a cui tendere: quale pensa possa essere la via maestra da perseguire per raggiungerlo?
Stato, Regioni e amministrazioni locali dovrebbero investire sempre di più in un sistema di welfare integrato che riconosca il contributo ideativo e di risorse di una pluralità di attori pubblici e privati in grado di co-progettare insieme nuove soluzioni. In larga parte questo welfare ha già trovato modo nell’ultimo decennio di sperimentare progetti e interventi innovativi su molti territori del nostro paese. Alla luce di queste esperienze e delle sfide acuite dalla crisi pandemica, occorre puntare sulle misure che hanno dato prova di generare impatti positivi. Penso, ad esempio, ad ambienti di lavoro e di vita più flessibili, servizi personalizzati, un welfare strutturato in modo diverso, con un coinvolgimento maggiore anche di imprese e di enti del Terzo Settore.
Alcuni dei provvedimenti degli ultimi anni hanno già introdotto i primi tasselli di un nuovo sistema: la normativa sul lavoro agile (ampiamente rafforzato durante la pandemia), gli sgravi per incentivare il welfare aziendale, la riforma del Terzo Settore, la ridefinizione dei livelli essenziali di assistenza, l’Assegno Unico Universale per i Figli sono misure che vanno in questa direzione. La sfida per le imprese, le parti sociali rimarrà quella di darne attuazione e valutarne sostenibilità e impatto. La pandemia ci ha posto difronte a molte sfide: tra queste, il riuscire a trovare un equilibrio tra attività in presenza e/o da remoto. Non sempre però, come ad esempio nei processi formativi e di apprendimento, si sono raggiunti risultati soddisfacenti.
Cosa ritiene si debba migliorare?
Credo che il lavoro agile costituisca una risorsa importante a disposizione dei lavoratori e delle lavoratrici e delle imprese e per questo non si debba tornare alla situazione pre-Covid-19. Del resto, molte ricerche condotte in questo ultimo anno di pandemia hanno evidenziato che sono gli stessi lavoratori ad averlo apprezzato. Proseguirà ma serve raccogliere in modo sistematico dati per comprendere quale è stato e potrà essere l’impatto del ricorso “massivo” allo smart working. E servono anche tutele per chi sceglie di lavorare da remoto e da ultimo ritengo che sia anche importante investire sempre di più su modelli lavorativi ibridi in cui il lavoro agile non diventi totalizzante ma sia una delle opzioni possibili in risposta alle specificità del contesto lavorativo e dei bisogni espressi dai lavoratori e dalle loro famiglie in fasi specifici del ciclo di vita.
“Impatto sociale” è un termine molto in voga ma è un concetto difficile da definire. Lei come lo inquadra?
Le trasformazioni della nostra società e dei sistemi di welfare contribuiscono a far emergere il rilevante tema della valutazione dell’impatto che politiche e misure sono in grado di generare rispetto ai bisogni crescenti della popolazione. Ancora troppo spesso attività e strumenti di monitoraggio si concentrano su aspetti che non riescono a mettere in luce se e in che misura è possibile modificare lo status quo e generare cambiamenti di lunga durata.
Dopo un anno e mezzo di crisi pandemica, credo sia strategico per l’Italia accompagnare i processi di riforma con una attenta valutazione dell’impatto sociale. In questo quadro, in cui molte realtà stanno rivedendo le proprie policy e strategie per rispondere alle conseguenze socio-economiche della pandemia, il tema dell’impatto sociale appare determinante per comprendere se e come sia possibile promuovere l’integrazione tra differenti tipi e livelli di intervento creando sistemi di protezioneche, nella società dell’incertezza, vadano a coprire nuove aree di bisogno, oggi scarsamente tutelate.
La valutazione dell’impatto sociale è determinante per capire se e come sia possibile promuovere l’integrazione tra differenti tipi e livelli di intervento sociale
La valutazione può aiutare a comprendere i punti di forza e di debolezza del welfare attuale e del futuro. Questo avverrebbe tramite la fornitura di strumenti preziosi per affrontare le nuove sfide demografiche, sociali e ambientali.
Quale, secondo lei, il ruolo di istituzioni come Fondazione Alberto Sordi nello sviluppo di una cultura sempre più attenta alle esigenze delle categorie più fragili?
Il Paese non sembra avere ancora piena contezza delle implicazioni dei processi di ageing e soprattutto non se ne fa adeguatamente carico, se non – principalmente – attraverso il sistema previdenziale e interventi di natura monetaria come l’Indennità di Accompagnamento. È urgente nel nostro Paese, potenziare l’area dei servizi agli anziani seguendo il paradigma del care multidimensionale e avviare una riqualificazione delle strutture residenziali per assicurarne l’ammodernamento, rafforzarne la dotazione infrastrutturale e migliorare così l’efficacia dell’assistenza e la qualità di vita degli ospiti.
Una fondazione come la vostra può certamente contribuire ad accrescere le pratiche virtuose di presa in carico degli anziani in un dialogo costante con i protagonisti di questo mondo ed essere punto di riferimento per il contesto locale in cui è inserita e più in generale per accrescere una cultura che guardi agli anziani non solo come un problema ma come una risorsa. Potrebbe contribuire inoltre a sostenere azioni di advocacy volte a promuovere un percorso di riforma della LTC atteso da decenni.
Il Covid ha messo tutti noi di fronte ad uno specchio: restando sul tema del welfare in Italia quali cambiamenti si sono attivati?
Sono molti i cambiamenti in corso. Mi soffermo qui su quelli che riguardando gli anziani e faccio esplicito riferimento al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Il PNRR riconosce il problema anziani e dà visibilità al settore della LTC aprendo la possibilità di avviare un processo concreto che dovrebbe portare entro il 2023 a una riforma nazionale della LTC con una logica di integrazione tra gli interventi sociali e quelli sociosanitari. La riforma è finalizzata all’introduzione dei livelli essenziali per gli anziani non autosufficienti, l’aumento dell’offerta di servizi, il rafforzamento dei modelli d’intervento secondo la logica del care multidimensionale e la riduzione della frammentazione e semplificazione dei percorsi di accesso (accesso unico che valorizzi anche le sinergie tra pubblico e non pubblico in questo ambito).
Accrescere i servizi per gli anziani significa ridurre i carichi di cura per le donne in quanto caregiverfamiliari.
Accrescere l’offerta di servizi per gli anziani contribuirebbe a ridurre i compiti di cura a carico delle donne nel loro ruolo di caregiver familiari e aprirebbe loro nuove opportunità occupazionali. Andrebbe inoltre a valorizzare una dialettica costruttiva tra Stato, Regioni e Comuni che rafforzi il ruolo di coordinamento e guida del primo e l’autonomia delle seconde. Questo andrebbe inoltre a ridurre le differenziazioni di intervento che oggi caratterizzano la politica di LTC nel nostro Paese.
Uno sguardo al futuro, guardando al presente: in Italia ci stiamo avvicinando o allontanando da una dimensione sociale che sia il più possibile giusta?
Studi e ricerche mettono in luce il fatto che le diseguaglianze e nuove forme di povertà nel mondo e nel nostro Paese stanno crescendo e la pandemia non ha rallentato questi trend. Per questo occorrerà utilizzare bene le ingenti risorse che il PNRR mette a disposizione dell’Italia nei prossimi anni ma anche investire nelle comunità e nella ricomposizione dei legami sociali.
Occorre alimentare quel senso di comunità che si è rivelato un prezioso alleato nel contrastare gli effetti sociali della pandemia già dai primi mesi di lockdown. Sono molte le iniziative – nate a livello locale – ancor di più in quest’ultimo anno e mezzo di pandemia – che hanno visto molti soggetti impegnati in pratiche solidali rivolte ai più fragili, tra cui gli anziani. Penso che questo patrimonio di esperienze nella maggior parte dei casi non andrà disperso e potrà costituire una base solida per proseguire in futuro in percorsi di innovazione.
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