Ricordo benissimo dov’ero quando ho visto per la prima volta le immagini dell’attacco alle Torri Gemelle. Erano già immagini in differita, ripetute continuamente come per convincere il telespettatore che era reale qualcosa che sembrava non potesse esserlo. Ero a Bratislava, per un convegno della Mont Pelerin Society, ma quel pomeriggio non c’erano sessioni, era un momento di turismo. Per la strada, comincio a sentire dell’attacco terroristico. Incontro altri partecipanti, americani, li vedo smarriti. Queste conferenze si tengono di norma in un hotel ma i partecipanti possono alloggiare anche in altri, di solito più economici. Mi reco nell’hotel principale e finisco nella camera di due amici americani, Richard e Anna Ebeling, davanti a quei fotogrammi. Gli altri montpeleriniani avevano spesso la preoccupazione immediata di qualche amico che lavorava nel centro di New York, provavano a mettersi in contatto, ovviamente da principio senza successo.
Confesso che assieme con la tristezza per quelle 3000 persone uccise dai terroristi io cominciai subito a coltivarne un’altra: la tristezza di veder finire quel mondo nel quale ero cresciuto, un mondo nel quale il comunismo aveva ammainato la sua bandiera e pace e libero scambio sembravano, finalmente, aver guadagnato il centro della scena. A vent’anni e qualche mese, sentivo per la prima volta che cosa significa essere davanti alla storia: avvertire un deprimente senso di impotenza.
Non bisogna avere l’ambizione di raccontarla in presa diretta, la storia, perché si rischia di prendere delle solenni cantonate. Però, a conti fatti, il dopo 11 settembre per molti noi, in questa parte di mondo, è stato meno drammatico di quanto temessimo. Le guerre in Medio Oriente hanno avuto conseguenze certamente gravi, ma gli effetti sulle nostre istituzioni, sulla nostra società aperta, sono apparsi tutto sommato periferici. Non voglio sminuire le torture di Guantanamo. Tuttavia, abbiamo avuto discussioni anche feroci, la libertà di parola non è mai stata messa in discussione, i valori dell’Occidente sono diventati a loro volta, in modo più o meno strumentale, una bandiera.
Mi sembra che nelle nostre istituzioni e nel nostro modo di vivere stia lasciando un’impronta tanto più profonda il Covid-19. Nel 2001, ci confrontavamo su come società libere e aperte dovessero affrontare la sfida del terrorismo: che le nostre società fossero e dovessero restare libere e aperte non era messo in discussione da nessuno. Lo scorso anno in molti hanno sospirato: magari potessimo fare come la Cina, chiudendo in casa con ancor maggior rigore le persone. E’ una differenza non da poco.
Quel giorno i terroristi misero nel mirino un simbolo capitalista del mondo libero. Oggi l’attacco a quel mondo è tutto interno, in molti se ne vergognano quasi e auspicano che si trasformi, diventando il suo contrario. Oggi ripensiamo a quelle vite spezzate ma anche ai valori e alle istituzioni che, in questo pezzo di mondo, rendono la vita non solo più confortevole ma anche più degna d’esser vissuta.
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