La caduta di Kabul e la fuga di americani e alleati dall’Afghanistàn hanno sollevato prima stupore e quindi un aspro dibattito. L’innesco è stato fornito dalla rapidità del crollo dell’impalcatura statuale e militare alzata dall’Occidente in quel paese, dove vent’anni di lavoro e presenza di soldati sul terreno sono stati vanificati nel giro di una manciata di settimane. Inevitabile la frustrazione per una sconfitta che a molti ha ricordato l’analoga in Viet-Nam. Anche in alcuni aspetti per così dire formali, quale la disperata fuga aerea di chi sia riuscito a trovare un posto sui velivoli in partenza e la gran massa di armi e materiali abbandonati sul posto. A qualcuno, infine, ha fatto particolare specie vedere gli equipaggiamenti destinati alle forze speciali afghane ostentati in strada da quelle appena costituite dei vincitori, i Talebani. Anche solo dal punto di vista della comunicazione visiva, un disastro.
Scontate a questo punto le critiche rivolte all’Amministrazione Biden che ha gestito l’evento. Questa, però, è solo l’ultima di quattro diverse, due repubblicane e due democratiche, coinvolte nella gestione della vicenda afghana. Gli uomini di Biden, dunque, si sono trovati nella sostanza ad affrontare problematiche determinate dai predecessori. Mai dimenticarsi che a decidere l’intervento è stato il repubblicano Bush e a firmare l’accordo con i Talebani l’altrettanto repubblicano Trump. Un po’ la nemesi del Viet-Nam, dove furono i democratici Kennedy e Johnson a coinvolgere gli USA nella guerra e il repubblicano Nixon a tirarli fuori. Questo dimostra che le decisioni geostrategiche di lungo periodo sono assunte in riva al Potomac in base a valutazioni che prescindono dalle convinzioni ideologiche sbandierate, ma obbediscono, come giusto che sia, al più stretto pragmatismo. Quasi a dispetto della premessa, però, la scelta di abbandonare Kabul segna una formidabile discontinuità rispetto agli orientamenti politico-militari emersi a partire dagli anni Novanta del Novecento.
È stato il periodo della Superpotenza Unica, dell’America “gendarme del Mondo” dell’ubriacatura da “fine della storia” stile Fukuyama. Adesso hanno scoperto, quasi con raccapriccio, che la storia non è affatto conclusa, così come l’accoppiata libero mercato-democrazia non riesce a esercitare ovunque lo stesso fascino magnetico. Passiamo ai dati di fatto, però. Il problema di fondo è che gli USA si sono resi conto che mantenere il ruolo di Superpotenza Unica costa troppo. Per cercare di conservarlo, negli ultimi trent’anni le spese militari dirette e indirette sono impazzite, drenando risorse di cui il paese avrebbe avuto disperato bisogno al suo interno. Gli effetti si vedono in ogni campo, dalla sanità ai trasporti, dalla scuola all’energia. Vale oggi per gli Stati Uniti quanto a metà Ottocento diceva della Gran Bretagna il primo ministro di allora, Disraeli: “Uno stato con due nazioni: i ricchi e i poveri.” Con disparità sociali rintracciabili solo nel Terzo Mondo, aggiungo.
Il problema è aggravato dal fatto che tutto questo tempo è stato sfruttato da un nuovo attore politico per procedere a un’incredibile accumulazione di ricchezza e sapere tecnologico. Parlo della Cina, ovviamente, la quale dall’alto della forza economico-finanziaria e della compattezza sociale di cui finora ha dato prova si è lanciata in una corsa agli armamenti seconda sola a quella americana. Forse allo stesso livello. Il nano strategico è cresciuto al punto da lanciare apertamente la sfida all’avversario a Stelle &Strisce. Non c’è niente di nuovo o di strano in questo.
La conquista dell’egemonia mondiale è sempre il vero obiettivo finale di ogni stato con dimensioni e risorse adeguate a osare l’impresa. Si tratta della vocazione naturale della forma-stato in quanto tale, cioè della più efficiente struttura organizzata del vivere associato finora creata dall’Homo Sapiens. Una specie parte integrante del tutto organico attraversato da un solo soffio vitale oggi chiamato comunemente Gaia, caratterizzato però dal curioso coesistere di unità e feroce lotta per la sopravvivenza tra le specie. Battaglia da cui esce vincitore non il più forte in assoluto, bensì colui con la migliore capacità adattativa cioè abile a piegarsi e a modificare a proprio vantaggio il vorticoso e continuo cambiare di ambiente e concorrenti. Se noi mettiamo in fila tutti questi elementi e li consideriamo come maglie di una sola rete di interconnessioni, siamo in grado di comprendere tanto le ragioni dell’intervento americano nella regione un tempo chiamata Bactria da persiani, greci parti, kushana e quindi diventata Afghanistàn quando l’Islàm si affacciò da conquistatore; quanto gli insuccessi sovietici e americani negli anni settanta del Novecento e oggi. Possiamo capire, inoltre, perché l’ombra che si allunga dietro i successi talebani porti il nome di Pakistàn e, soprattutto, Cina.
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