Siamo tutti colpiti. Lo shock è stato forte. Intendiamoci nessuno pensava che l’Occidente, ed in primis gli Usa, stessero vincendo la guerra in Afganistan. E tutti sapevamo che oramai l’exit strategy era imminente. Ma l’epilogo è stato disastroso. Gli uomini attaccati alle ruote degli elicotteri in partenza da Kabul ci hanno ricordato drammaticamente la Saigon del 1975. Con una grande differenza. Che quella volta eravamo dalla parte dei vincitori. Con la grande speranza, in parte fallita, di un futuro democratico e di sviluppo per il Vietnam. Mentre questa volta siamo amaramente dalla parte dei vinti. E non possiamo che leccarci le ferite dopo 20 anni di guerra, morti e distruzioni.
Non molto da dire sull’epilogo e sulla gestione della “exit strategy”. Due cose mi colpiscono. La prima è la solitudine, ricercata, degli Americani e la seconda è la quasi completa irrilevanza degli Europei. E quindi l’assenza della Nato come soggetto delegato a gestire la strategia politico militare dell’Occidente. Ma come si fa ad apparire o meglio a risultare così impreparati e così improvvidi nella gestione di una “exit strategy” attesa da tempo e da tutti condivisa? Come si fa a lasciare scoperti le decine di migliaia di collaboratori, di alleati e di cittadini schierati in qualche modo con gli occidentali? Questa gestione costerà molto in termini di vite e di soprusi fisici e psicologici a tanti afgani schierati, pur fra mille gradazioni diverse, contro i talebani e costerà moltissimo in termini di credibilità politica a Biden, agli Usa, agli alleati europei, a tutto l’occidente. Gestione fallimentare.
E veniamo alla guerra, alla sua motivazione e alla sua gestione. La morte di Gino Strada in questi giorni è quasi una metafora. Per chi è vicino alla sua impostazione politica (altra cosa è la sua inappuntabile e condivisibile gestione medica e umanitaria) la risposta è semplice. La guerra è sempre inutile. Non ha alcuna funzione e non può avere alcuna motivazione. E quindi gli americani e gli alleati sono solo degli invasori peraltro illegittimamente impegnati in una guerra non decretata secondo i “crismi Onu” del diritto internazionale.
Per chi invece viaggia su terreni meno “assoluti” la guerra ha avuto vent’anni fa una sua profonda motivazione. L’Afganistan era di fatto il paese in cui si allenava e allevava il terrorismo internazionale. E la risposta all’attacco alle torri gemelle di New York con la guerra all’Afganistan fu vista come l’azione più adeguata a mettere sotto pressione la cultura, la gestione e la strategia terroristica del movimento estremista musulmano. La vittoria dell’estremismo musulmano con la ferita, anche simbolica, al centro dell’Impero del male non poteva rimanere impunita. Pena il rafforzamento anche ideologico e non solo militare di quel movimento. Si può discutere che la strategia terroristica stava ben radicata in tanti posti nel mondo, alcuni anche molto vicini ai tanti mondi alleati o collaboratori dell’Occidente. Ma è evidente che l’Afganistan era, anche simbolicamente, il “centro” di tale movimento. E come tale andava colpito e normalizzato.
Da una motivazione giusta, per chi crede ovviamente che si possa parlare di guerre giuste, non discende una strategia e una gestione militare adeguata. Certo Kabul, fino a pochi giorni fa, era una città diversa dalla capitale di un paese estremista e terrorista come peraltro altre città del paese ma, come abbiamo visto, questo non è stato sufficiente a non cadere in pochi giorni nelle mani dei talebani.
E qui appaiono in maniera evidente i “difetti” del modello tradizionale americano. Cercare di “pagare con i dollari” l’amicizia dei popoli non cercando, o cercando in misura non sufficiente, di costruire con altri strumenti e su altri valori l’opposizione al mondo tribale e all’estremismo musulmano. Favorendo in tal modo la corruzione (chi non ricorda Saigon?), l’opportunismo dei capi e dei collaboratori e la bassa tenuta culturale della “nuova comunità” rispetto alla “forza bruta ma verace” della tradizione.
Poi certamente altri errori in un paese diviso in tante comunità tribali, con un territorio vasto e montano difficilmente controllabile dal centro e dagli altri centri urbani, e altro ancora. Per esempio, veniamo a sapere che in vent’anni di guerra l’esercito alleato non è riuscito ad estirpare la principale fonte di sostentamento finanziario dei talebani: l’oppio. E come può accadere una cosa del genere? Se oggi con i satelliti riusciamo a vedere e a distinguere le coltivazioni di riso da quelle di grano? Incomprensibile.
Ma alla fine veniamo alla domanda fondamentale: ha un senso una guerra per esportare la democrazia? E a questa domanda si deve rispondere in due modi diversi. La prima è quella che ha dato Biden: la guerra in Afganistan non voleva esportare la democrazia ma distruggere il suo potenziale terroristico. E’ riuscito questo obiettivo? Difficile dirlo oggi. E ancora più difficile capire se è stata la guerra, quella guerra, a portare eventualmente questo risultato. Il giudizio non può che rimanere sospeso. Forse tante azioni future, non militari e non solo dell’Occidente, potranno dire qualcosa di più definitivo su questo punto.
La seconda è che se sei un paese democratico e vivi in un mondo dove i sistemi democratici sono pochi e forse neppure crescenti in termini di “presenza geopolitica” devi porti il problema dell’allargamento e dell’approfondimento della democrazia come sistema dominante. O si può pensare di vivere e vivere bene in un mondo dove le autocrazie, le dittature e gli stati autoritari abbondano e allargano la loro sfera di influenza? Magari, e su questo è giusta una riflessione culturale e strategica, non è detto che la guerra sia lo strumento più adatto per esportare la democrazia. E che per esportare la democrazia si possano usare strumenti screditati come la corruzione, il basso gioco politico, l’utilizzo di capi e capetti “fantoccio” e, cosa più importante, considerare la popolazione come una massa amorfa eterodiretta e senza valori.
Ma dobbiamo voler esportare la democrazia. Dobbiamo voler affermare la superiorità della democrazia sulla dittatura. Il relativismo culturale su questo punto può essere tragico per l’occidente. E allora discutiamo sul “come” lasciando scontata la scelta sul “se”. La guerra è solo uno strumento, peraltro vecchio e superato per molti versi. Investiamo su altri strumenti, sviluppiamo altri modelli culturali e lavoriamo di lunga lena per un’azione che sarà lunga e difficile. Ma guai a considerare non più attuale la battaglia per lo sviluppo e l’allargamento dei sistemi democratici nel Mondo.
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