Da quanto si parlava di fare una riforma della Giustizia a partire dalla responsabilità civile dei magistrati? Certamente già dai tempi del processo ad Enzo Tortora, cui fece seguito il referendum popolare del 1987 con lo scopo di tutelare i cittadini nei casi di grave imperizia dei giudici: referendum vinto dal fronte del Sì con l’80% dei consensi, ma poi snaturato dalla legge Vassalli che di fatto preservava una sostanziale irresponsabilità del magistrato.
Non c’è dubbio, allora, che l’approvazione nel Consiglio dei ministri di qualche giorno fa della riforma del processo penale firmata dalla ministra Cartabia sia un importante passo in avanti perché si muove nel rispetto del principio costituzionale del giusto processo, e per questo vada accolta con grande soddisfazione da tutti quelli che si considerano garantisti.
Se poi si arriverà anche all’approvazione definitiva in Parlamento, si potrà finalmente considerare chiusa l’epoca Bonafede del giustizialismo imperante. Grazie a una riforma su cui ha detto parole definitive lo stesso presidente Draghi, quando ha ricordato che si tratta di una conditio sine qua non per lo stesso Pnrr che verrebbe bloccato, in caso di non approvazione, con gravissimi danni per la nostra economia oltre che per il migliore funzionamento del meccanismo processuale.
Dopo la prevedibile reazione indispettita dell’ex ministro Bonafede, si sono levate grida di dolore per il sostanziale ripristino della prescrizione – e quindi dei diritti dell’imputato – da tutta quella parte del M5S che ha fatto del giustizialismo e del giacobinismo la sua principale bandiera: per un verso l’ideologo movimentista Di Battista e i suoi companeros sostenitori della sinistra radicale di stampo sudamericano; e per l’altro Giuseppe Conte che, pur sempre azzimato e perfettamente pettinato, ha gettato la maschera del trasformista moderato tanto amato dalla vecchiette devote a Padre Pio, e che in diretta Facebook ha dichiarato guerra alla riforma Cartabia, nonché al governo Draghi.
E’ bene ricordare sempre che, nonostante la maturazione dell’ex enfant prodige Gigino Di Maio e la recente svolta governativa di Beppe Grillo (il cui divorzio politico ma anche affettivo da Conte sembra ormai definitivo), nel Parlamento i grillini sono ancora la maggioranza relativa e costituiscono una compagine sregolata e, di conseguenza, totalmente imprevedibile.
Per questo, la ministra Cartabia va ringraziata e sostenuta fino in fondo nella sua opera riformatrice e garantista; ma al tempo stesso il Parlamento va pungolato e spinto verso quella direzione attraverso i referendum popolari proposti dai Radicali e appoggiati dalla Lega.
Sono sei quesiti e tutti di straordinaria importanza: si tratta di riformare il Csm per sottrarlo alla deriva delle correnti e della politicizzazione; di separare le carriere dei pm da quelle dei giudici; di stablire la responabilità civile dei magistrati; di evitare gli abusi della custodia cautelare; di abolire la legge Severino e riaffermare così il valore rieducativo della pena (art. 27 della Costituzione).
Se questi referendum avessero successo, la riforma complessiva della Giustizia riceverebbe una spinta dal basso così forte che la politica tutta dovrebbe necessariamente riprendere il ruolo che le spetta e agire senza ulteriori indecisioni e segnali di debolezza.
Lascia un commento