Il pragmatismo non significa praticità e realismo. È quell’approccio alle cose che – ribaltando il concetto di esperienza, e dunque di scienza – sostiene, in parole povere, che – ad esempio – una sedia non è tale perché nel corso del tempo gli uomini ne hanno acquisito una simile cognizione fissandola in una parola che la rede così oggettiva ma perché, se qualcuno di fatto vi si siede, ebbene, allora è una sedia, qualunque forma essa abbia. Un corollario di questa impostazione è il celeberrimo Teorema di Thomas: “se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze”. È insomma il detto della “profezia che si auto-avvera”, che è in parte fondato ma in parte no.
Quanto sta accadendo in queste drammatiche ore nel Regno Unito mostra tutti i limiti di questo modo di pensare tipicamente anglosassone. In una delle più antiche democrazie del mondo, in un Paese che, dall’inizio dell’epoca moderna ad oggi, non ha mai conosciuto regimi dittatoriali, si sta consumando una vera e propria tragedia, che lascia letteralmente senza fiato non solo i Britannici ma anche quanti di noi – chi entusiasta perché convinto che basti dare spallate per cambiare le cose, chi invece disincantato e rassegnato perché gli sembra che in questo mondo impazzito tutto ormai sia possibile e probabile – abbiano cominciato a pensare che la realtà non abbia in sé anche una sua consistenza autonoma, indipendente, che sia in altri termini davvero come vorremmo che fosse.
Non voglio soffermarmi qui su cosa vorrebbe dire – dati alla mano di tutte le più prestigiose Istituzioni di Ricerca internazionali, la Banca d’Inghilterra compresa − una fuoriuscita dall’Unione Europea della Gran Bretagna senza un accordo: dagli 8 ai 10 punti percentuali in meno di PIL nel giro pochi anni; la falcidia del tessuto imprenditoriale britannico, specialmente manifatturiero e finanziario-assicurativo, con relativa perdita di migliaia di posti lavoro, causa l’imposizione di tanti dazi diretti e indiretti quanti siano i necessari accordi bilaterali che la Gran Bretagna si troverebbe costretta a negoziare; infine l’improvvisa penuria di personale altamente specializzato (e di medicinali per la gran parte importati) in settori quali la Sanità (di quel personale ad elevata qualificazione circa il 40% è straniero). C’è un film “catastrofista” di alcuni anni fa in cui – alla domanda di un giornalista che, nell’imminente impatto di un enorme meteorite sulla terra, chiedeva quali fossero gli effetti previsti – il Presidente degli Stati Uniti rispondeva: “impossibile dirlo: l’evento è talmente unico che le previsioni sono solo intuitive”. Vorrei invece riflettere brevemente sulle lezioni inglesi che Brexit ci sta impartendo.
La prima è – come dicevo – che “puoi dimenticare a realtà ma è la realtà che non si dimentica di te”. L’impossibilità di calcolare – se non intuitivamente, appunto – le ricadute economiche, e il lasso di tempo in cui potrebbero avverarsi, dipende dal fatto che ormai il nostro mondo è incontrovertibilmente connesso, e non c’è Brexit, eventuale “Italexit” o isolazionismo trumpiano che possa cambiare questo stato delle cose. Non è solo questione di contabilizzare la quantità di valore, sotto forma di beni e servizi, che attraverserebbe per quante volte la Manica, sottoponendosi a pedaggi (dunque autorizzazioni burocratiche bilaterali, accise ecc.) che incrementerebbero oltre misura i costi. Il problema – in una catena del valore reticolare e a scala mondiale – sono gli aggravi di spesa che graverebbero anche, indirettamente, sui produttori, fornitori e subfornitori in scambio ad esempio fra Paesi dell’Unione Europea (dunque apparentemente non toccati dal problema) ma per semilavorati e componentistiche che, tramite i legami tra nodo a nodo, avessero, destinazione finale in Gran Bretagna (e viceversa, se ci si pone sul lato delle impostazioni). Caratteristica della “rete” – per sua stessa costituzione – è che quanto interdetto per la distruzione di un suo ganglio passa per gli altri punti di snodo, facendo sentire i suoi effetti su tutta la trama delle connessioni.
La seconda lezione è, ancora una volta, la crisi irrimediabile del modello di democrazia occidentale novecentesco nelle varie forme storicamente determinate nelle quali si è declinato: quella parlamentare proporzionale o maggioritaria, quella semipresidenziale, quella presidenziale e così via. Le questioni cruciali – torno a ripeterlo, dopo essere intervenuto già un paio di volte sul problema sulle pagine di questo giornale – sono due.
La prima è il principio della democrazia diretta, che ha nell’istituto del referendum la sua massima espressione (tralascio i patetici videogiochi della sedicente democrazia decisionale digitale). Lo dico chiaramente: ci sono problematiche sulle quali il “popolo” (metto fra virgolette la parola) non può e non deve votare. In quell’espressione virgolettata non includo solo la così detta gente comune (me compreso). Includo anche tanta parte della così detta “intellighenzia”, spesso focalizzata in settori di specializzazione che offusca la visione di insieme ed è di fatto incapace di disporre e processare non dico tutte le informazioni ma quelle strategiche anche soltanto per rendersi conto dell’entità di quegli eventi intuitivi di cui ho parlato prima. Nelle ore successive alla mezzanotte di quel 23 Giugno 2016, quanto una risicata maggioranza sancì l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, i server di Google registrarono un numero imponente di query su cosa fosse l’Unione Europea e cosa Brexit avrebbe comportato.
La seconda questione è il carattere, l’habitus, di un’élite politica con la P maiuscola. Una Dirigenza degna di questo nome non ha il diritto di rimettere decisioni e strategie di lungo corso – dalle quali dipende la vita delle generazioni attuali e di quelle future – nelle mani di elettorati storditi da cascate di informazioni frammentarie, mal controllate, spesso ulteriormente distorte da capipopolo esclusivamente interessati alla propria carriera e al proprio tornaconto anch’esso di breve respiro. Nella grande democrazia inglese, oggi tutti gli equilibri “consuetudinari” costituzionali sono stati sovvertiti. A colpi di emendamento, il Parlamento inglese ha di fatto esautorato il potere esecutivo del Governo, avvicendandosi in queste ore in un profluvio grottesco quanto inutile di ordini del giorno e rilievi che hanno il valore della peggior carta straccia riciclata. Sia altrettanto chiaro: il diritto di voto, attivo e passivo, è il sangue della Democrazia. Ma senza una rieducazione civica, senza una nuova regolamentazione della sfera pubblica – a cominciare da quella di internet – senza una selezione rigorosa di classi politiche istruite, formate ed esperte, quel sangue è nella gran parte dei casi infetto.
Adesso il corollario. Riguarda l’opinione pubblica. Già ho accennato all’esigenza che sia resa più correttamente informata e consapevole, dove quel “correttamente” non vuol dire affatto “educata” all’ideologia della forza politica dominante del momento ma resa accessibile a nozioni, cognizioni, analisi basate il più possibile sì sui fatti ma soprattutto sulle loro connessioni e sui più o meno probabili loro effetti sul breve, medio e lungo periodi. Qui, i nuovi media informatici, con i preziosi spazi di confronto, incontro e scambio di idee, sono strumenti formidabili. Ma questa prima “immersione” non potrà mai, mai, sostituire il momento dell’incontro, del dialogo, dell’argomentazione nell’intera gamma delle opportunità date dal linguaggio verbale e non verbale. La democrazia o profuma del puzzo di sudore e dei sommovimenti emotivi dello scontro anche ravvicinato e di quelli della riappacificazione intorno al compromessi oppure, semplicemente muore. Tutto ciò chiama in causa il problema di quali siano le possibili nuove forme partitiche e di impegno sociale e politico di sintesi, trasmissione e rappresentanza delle domande delle persone e dei loro gruppi, delle loro categorie di interesse. Ma è un capitolo che merita una riflessione a parte.
C’è infine una terza lezione inglese che la Brexit mi sembra dare. La democrazia non è soltanto una cultura, delle istituzioni, una sfera ed un’opinione pubbliche. Quella puzza viva di sudore è odore di diseguaglianze sociali che si ripetono, si articolano, si complicano. In questi giorni, in Gran Bretagna, una petizione volta a chiedere un secondo referendum sul remainingo sul leaving(ma su quale quesito? Un bel problema!) ha raggiunto in poche ore circa 7 milioni di sottoscrizioni, e per le strade di Londra hanno sfilato, giorni fa, circa un milione di persone. Ma è uso di internet – dunque di gente che ne ha familiarità – ed è Londra. La Gran Bretagna − così come la Francia con Marine Le Pen, l’Italia con Di Maio e Salvini, gli Stati Uniti con Trump – non sono solo aree metropolitane, nodi centrali e cosmopoliti. La globalizzazione – con il suo essere realtà di propria consistenza e autonomia, che procede di fatto a prescindere da come la si vorrebbe o la si paventasse perché sparisca – ha sempre avuto, sin dai tempi del suo inizio, quasi quattro secoli fa, vincitori e vinti: i primi sono chi può permettersi di muoversi e coloro ai quali si aprono quindi opportunità che – per censo e istruzione – riconoscono e possono cogliere allungando, anche se con fatica, la mano. Gli sconfitti, i vinti, sono le aree rurali più periferiche e decentrate, quelle dove il tempo è ancora quello del campanile, o anche dell’I Watch ma usato per giocare. Sono coloro che non possono muoversi. Ma sono anche coloro che lo fanno perché sono costretti, spinti, su barconi. Finora il Regno Unito li ha accolti dopo che l’Europa li aveva rifocillati, istruiti, “civilizzati”. Passeggiate per Hyde Park e resterete meravigliati della gamma di colori, storie, giochi di bambini di pelle diversa e vicinanza di padri e madri dai mille abbigliamenti. La Brexit è anche il rifiuto egoistico – il Partito Laburista di Corbyn “il confuso” in testa – di pagare tanta bellezza.
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