La crisi conseguente alla pandemia è come l’Idra, ha sette teste di cui una immortale: anche per Ercole fu una faticaccia averne ragione, figurarsi l’Europa unita con i suoi travagli riuscire a ripartire.
L’attenzione si è focalizzata sul PNRR con gli investimenti e le intrecciate riforme: visti i suoi precedenti il timore è che per l’Italia si materializzi la legge di Murphy: se qualcosa può andare male, sicuramente andrà male.
Il problema è che per una ripartenza dell’economia altre ombre si addensano, pesanti ombre: occorre andare oltre le pur fondamentali questioni macroeconomiche e di finanza pubblica.
Le banche sono gravate attualmente di quasi 160 miliardi prestiti garantiti dallo stato per moratorie, di cui oltre 120 miliardi riguardano imprese e gli altri famiglie. Si può ragionevolmente ipotizzare quanti di questi prestiti si trasformeranno in NPL e poi in perdite per le banche che ovviamente dovranno essere coperte dallo stato? E quanto questo incidere sull’offerta di credito e sulle sue condizioni?
Se le garanzie fornite dallo stato non otterranno il risultato di rivitalizzare la maggior parte delle imprese beneficiarie e si tradurranno in NPL, è ipotizzabile una nuova fase di credit crunch. Le banche tenderanno sempre più a razionare il credito non riuscendo a selezionare la domanda con i tassi: la curva di offerta di credito non incontra la domanda. Ma dobbiamo sperare che questo intervento di sostegno possa riuscire nel suo intento perché dovrebbe andare a sostenere le perdite dovute agli effetti Covid-19, in condizione di eccezionalità. Certo la struttura del passivo delle aziende (eccesso di indebitamento) e dell’attivo delle banche (svalutazione degli asset) sono soggette a squilibri.
Non è solo un problema delle banche ma anche più in generale del sistema economico e del suo asset fondamentale, la fiducia. Quante delle imprese operative sono effettivamente vitali e quante sono zombie tenute in vita artificialmente dalla sospensione dell’apertura obbligatoria della procedura di insolvenza? C’è un sistema perché un’azienda possa percepire quando sta trattando con una impresa ormai irrimediabilmente compromessa dalla quale guardarsi?
Per le imprese non soggette alla legislazione e alla contabilità delle spa, quindi le piccole imprese, è quasi impossibile. I bilanci non sono certamente “illuminanti” e trasparenti, per cui non evidenziano appieno il rischio. La selezione sarà dura e soggetta a errori sistematici, cioè o indiscriminata o lasca.
L’etica del capitalismo responsabile prevede che una impresa decotta esca dal mercato per non compromettere il sistema delle transazioni e per non alterare la concorrenza: come sono compatibili con la filosofia produttivistica e competitiva del Recovery i casi Alitalia e ILVA?
Non lo sono affatto. Qualche distinguo potrebbe forse andar bene per l’ILVA, ma l’Alitalia grida vendetta. Come è possibile sussidiare questa azienda in una fase in cui chiudono attività economiche anche potenzialmente produttive? La teoria ci dice che la partecipazione in mano pubblica di un’impresa in fase pre-fallimentare è socialmente utile quando il valore sociale dell’impresa mantenuta in vita (per gli shareholder, gli stakeholder tutti e tenuto conto delle esternalità) supera il costo sociale dell’esborso finanziato dai contribuenti o dal debito pubblico. In merito agli sforzi per mantenere in vita Alitalia, con i soldi pubblici, nessuno si è preso la briga di dimostrarci questo calcolo……
Sono quasi cento i tavoli di crisi aperti al MISE per crisi aziendali: ma come si può pensare di salvarle senza profondi processi di ristrutturazione che prevedano anche i licenziamenti? E il blocco riguarda tutte le aziende: se ne deve uscire con la massima protezione possibile per i lavoratori ma se ne deve uscire. Ha senso un PNRR che interviene su imprese ibernate?
“Proteggere i lavoratori, non necessariamente i posti di lavoro”. Siamo sicuri che questo fondamento della flexicurity sia superato? Comunque questo ha funzionato bene in società con una capacità formativa dei lavoratori evoluta, tale da rendere fluidi i passaggi da un posto di lavoro perduto a uno vacante (“matching”). Per questo il PNRR insiste molto per una grande riforma dell’istruzione professionale. Un po’ di “distruzione creatrice” in Italia dovrebbe comunque trovare applicazione. Ma vi sono incrostazioni culturali, politiche e sindacali dure da rimuovere.
La concorrenza nel mercato viene anche alterato dal ritorno in grande stile dello Stato nelle imprese, da Autostrade ad imprese del made in Italy. Ma Draghi 1 della privatizzazione delle aziende pubbliche come si concilia con il Draghi 2 della ripubblicizzazione delle aziende private ?
Si concilia solo con riferimento ad una situazione totalmente eccezionale e quindi ammettendo la temporaneità di questi processi di pubblicizzazione. Ma si saprà tornare indietro? Tutte le forze politiche, salvo poche eccezioni, si metteranno di traverso. Oggi quasi il 60% delle decisioni produttive e sugli scambi sono prese a livello politico. Come sottolineato da Acemoglu e Robinson nel loro ultimo gran libro (“La Strettoia, come le nazione diventano libere”), quando la pubblicizzazione delle imprese private supera un certo livello, non è in pericolo solo l’economia ma anche la democrazia, perché nel pubblico si annidano delle poderose elite che possono prendere il sopravvento. Gli esempi della storia sono numerosi. Senza fare riferimento a quello estremo della Repubblica di Weimar basta richiamare il precedente caso di Alitalia, con le sue eclatanti discriminazioni tra lavoratori che minano alle fondamenta la democrazia del mercato del lavoro..
Questa invasione del sistema delle imprese avviene anche con l’esercizio assolutamente discrezionale del golden power per dettare ad imprese straniere specifiche condizioni all’acquisito di partecipazioni, come di opporsi all’acquisto di partecipazioni. Questo addirittura limita gravemente la libera circolazione dei capitali garantita dai Trattati europei: E’ il più classico esercizio dei poteri clientelari sul territorio, all’insegna del “Ci pensa lo zio Remo”
E’ certamente un altro segnale della deriva anti-mercato che sta ormai dilagando. Il fatto è che si tratta di una tendenza diffusa in gran parte dell’Europa. Ad ogni modo, gli espedienti per limitare la libera circolazione dei capitali, nel lungo periodo, si sono sempre ritorti su chi li ha messi in atto.
De Rita, in una critica alla impostazione del Recovery Plan, afferma che non sono i piani che fanno lo sviluppo ma sono i soggetti “Nel Dopoguerra eravamo un Paese distrutto. L’intelligenza dei nostri governanti dell’epoca è stata quella di affidarsi ai cittadini, e così è stato con la ricostruzione”. Ma i soggetti allora non erano frenati o impediti da lacci e lacciuoli, oggi non è così: ci sarà la forza per rimuoverli?
Se non ci sarà, il paese entrerà in una lunga fase di declino. La consapevolezza dei limiti e delle distorsioni provocate dai freni legislativi, regolamentari e fiscali è molto presente in Europa. Quindi non ci rimane che sperare negli stimoli che provengono dall’attuazione del NextGenEU.
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