Il Mezzogiorno e la sua storia
Il Mezzogiorno ha rappresentato, fin dalle origini dello Stato nazionale, un problema e, al tempo stesso, un’opportunità per lo sviluppo dell’Italia. Le sue condizioni di arretratezza erano antiche, largamente preesistenti al momento dell’Unità, e si inserivano nel contesto di una lentezza nella modernizzazione dell’intero Paese, che avrebbe avviato il suo processo di industrializzazione solo tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento. La “questione meridionale”, quindi, non era il portato di uno scompenso provocato dal Risorgimento, ma di un fenomeno molto più complesso, che affondava le radici nella storica separazione e frammentazione delle diverse aree territoriali della penisola, oltre che nella diversità delle condizioni sociali e del ritmo di avanzamento dell’economia.
Tuttavia, l’Italia, pur arrivando all’unificazione prima della Germania, non riuscì a cogliere immediatamente la possibilità di un pieno sviluppo economico e di una nuova prospettiva competitiva a livello internazionale, a causa della sua “mancata unificazione economica”, come aveva indicato Pasquale Saraceno. La Germania, infatti, aveva saldato il proprio mercato interno, attraverso lo Zollverein, e iniziato un processo di integrazione economica, ben prima della formazione di uno Stato unitario. Non a caso, lo schema seguito dall’Italia per la propria crescita, a cominciare dalle modalità di intervento pubblico e dalla struttura del sistema creditizio, fu molto simile a quello del modello tedesco.
In un solo periodo, tuttavia, l’Italia è stata in grado di avvantaggiarsi dell’occasione meridionale e di includere in un processo di modernizzazione il Mezzogiorno. Durante la golden age, infatti, l’Italia riuscì a recuperare il suo ritardo e ad avvicinarsi ai Paesi più progrediti, in un percorso di “doppia convergenza” tra il Nord e il Sud e tra la nostra economia e quella europea. Il miracolo economico fu tale perché riuscì a contemperare le ragioni e gli interessi di tutta la nazione e a compiere scelte di politica economica e di sviluppo industriale in un quadro di reciprocità di intenti tra le regioni meridionali e quelle centro-settentrionali. L’intervento straordinario nel Mezzogiorno, sorto con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno nel 1950, ha rappresentato uno degli strumenti più importanti di intervento pubblico nell’economia di tutto il secolo scorso.
La sua azione ha promosso, in un primo tempo, la realizzazione delle infrastrutture a supporto della riforma agraria nella parte dell’Italia che ne era maggiormente sprovvista, creando, in questo modo, le precondizioni per il decollo produttivo del Sud. Dal 1957 in poi, in una singolare e non casuale coincidenza con la firma del Trattato di Roma, la Cassa ha incoraggiato una diffusa industrializzazione del Mezzogiorno, seguendo il modello fordista delle imprese di maggiori dimensioni ed esaltando la complementarietà del sistema produttivo meridionale con quello già consolidato e concorrenziale del Nord. In questa fase, anche grazie all’appoggio in tappe successive della Banca Mondiale e della Banca Europea per gli Investimenti, si è fondato – in un Paese “per metà avanzato e per metà arretrato” – un prototipo di sviluppo, da prendere ad esempio per le iniziative da adottare nelle backward areas di tutto il mondo.
In questa cornice, si è inserita una modalità tipica della tradizione nittiana, che Alberto Beneduce, in Italia, e Franklin Delano Roosevelt, dall’altro lato dell’oceano, avevano già applicato nel periodo tra le due guerre, quando, di fronte alla Grande depressione, il ruolo dello Stato doveva non solo manifestarsi, ma agire con i meccanismi e l’efficienza di un’azienda, assicurando la tenuta e la ripresa delle attività industriali colpite dalla crisi. La straordinarietà degli interventi, partendo dall’emergenza, si sarebbe man mano dovuta fare ordinaria e diventare un elemento stabile del recupero di un mercato competitivo all’interno di uno Stato regolatore e innovatore. L’assillo dei riformisti si poteva condensare in un nuovo paradigma economico, che prese corpo dopo la ricostruzione postbellica e che assunse le sembianze di una sorta di “keynesismo dell’offerta”, ovvero di una strategia, quella della Cassa, che intendeva puntare sugli investimenti industriali, sull’incremento di produttività e sull’occupazione produttiva, anziché sul mero trasferimento di risorse finanziarie e sul sostegno alla domanda.
Il Mezzogiorno, così, assurgeva a principale protagonista del suo riscatto, emancipandosi da una condizione di debolezza sociale e di prostrazione economica. Un insegnamento valido ancora oggi, per affrontare le temperie della pandemia e condurre a buon fine gli sforzi da compiere con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non si tratta di proporre una nuova agenzia per il Sud, una tecnostruttura complessa e all’avanguardia come è stata la Cassa, ma di trarre da quell’esperienza l’impulso a ragionare sul ruolo dell’intervento pubblico e di quello privato, combinati in una sintesi diversa dal passato, e a rilanciare un inedito progetto di modernizzazione di tutto il Paese, basato sulle riforme e sugli investimenti. Dopo l’unificazione e, soprattutto, dopo la seconda guerra mondiale, si è fortemente evoluta tutta l’Italia, non solo una parte di essa, diventando, da economia povera, una potenza industriale europea. In questo lungo arco di tempo, il Sud si è sviluppato molto più lentamente, pur giovandosi del progresso nazionale e contribuendo sostanzialmente al fenomeno generale della crescita italiana.
L’Italia di oggi è anche il prodotto delle diverse stagioni del Mezzogiorno, che ha contribuito, nel bene e nel male, ai grandi cambiamenti di contesto in cui si è mosso il Paese. Dopo il primo ventennio e oltre dell’intervento straordinario e la sua dimensione strutturale di condotta, ricominciò la “grande divergenza”, interrotta solo da intervalli sporadici di ripresa. Con la caduta del sistema di Bretton Woods e l’avvento delle crisi petrolifere, all’impegno per lo sviluppo delle regioni meridionali e al boom economico italiano, si sostituì una prospettiva involutiva. Alla “modernizzazione attiva”, avviata nel Sud durante l’età dell’oro, subentrava un vecchio paradigma industriale, incentrato su una ristrutturazione orientata a proteggere l’apparato produttivo tradizionale, senza alcuna innovazione. In questo periodo, iniziarono le cesure che hanno accompagnato un intero ciclo di declino dell’Italia. Si è passati, infatti, da una serie di crisi puntuali, a una vera e propria “età di crisi”, costellata da un ripiegamento delle capacità competitive e dell’orizzonte di crescita nazionale.
I caratteri di quest’epoca furono modellati dalla congiuntura generale sfavorevole e, all’interno del Paese, tra le altre cose, dall’origine dell’esperienza delle Regioni, che rapidamente abdicarono alla loro funzione di programmazione, assumendo la configurazione di enti di semplice gestione, aggravando il ritorno all’indietro del Sud e inficiando l’iniziativa della Cassa. Da allora in poi, l’esaurimento della spinta propulsiva dell’intervento straordinario, fino alla sua chiusura, e la torsione assistenzialistica delle politiche per il Mezzogiorno aprirono le porte all’avvicendamento di una strategia di tipo top down con un disegno legato allo sviluppo locale di tipo bottom up, contrassegnato dalla contrattazione programmata e da uno spreco inusitato di risorse pubbliche (nazionali ed europee), che avrebbe dato vita, quasi specularmente, alla nascita di una “questione settentrionale”.
La crisi del 2007-2014 ha rappresentato il secondo atto di questo lungo periodo di decadimento delle condizioni dell’Italia e del Mezzogiorno, determinando, per la prima volta in modo così evidente, un arretramento comune – anche se più accentuato per il Sud – delle due aree fondamentali del Paese. Il breve risveglio degli anni tra il 2015 e il 2017, caratterizzati da una crescita moderata ma più intensa nelle regioni meridionali, grazie ai nuovi indirizzi di politica economica nazionale, è stato interrotto bruscamente da scelte improvvide, che hanno riportato indietro le lancette del tempo, puntando esclusivamente su forme ataviche di trasferimento del reddito. La pandemia, poi, con il terzo atto di questa storia, ha inasprito definitivamente la situazione, colpendo, inizialmente, soprattutto i territori e l’apparato produttivo del Nord, ma evidenziando, poi, le debolezze strutturali del Sud, che ne rendono più complicata la risalita.
Il Mezzogiorno, quindi, nel corso di oltre un secolo e mezzo, è passato a essere da “questione sociale” nei primi decenni postunitari a “questione industriale” fino al secondo dopoguerra, per poi trasformarsi in “problema speciale” con l’intervento straordinario, fino a diventare, nell’ultimo periodo, un “problema aperto” – come l’ha definito Giuseppe Galasso – di natura nazionale ed europea.
L’Italia e il Mezzogiorno in una prospettiva europea di ripresa
Il COVID-19 ha avuto un effetto simmetrico, seppure con qualche sfasamento temporale, nella sua diffusione in tutto il mondo, ma esiti asimmetrici dal punto di vista economico, portando allo stremo le strutture già gracili delle realtà più deboli ed esposte. L’Italia ha subito gravi conseguenze da questo fenomeno, sia sul versante sanitario che su quello economico e sociale. Su quest’ultimo piano, l’Europa ha fornito una risposta molto diversa e sicuramente più efficace della cosiddetta “austerità espansiva”, attuata di fronte alla crisi del debito sovrano. Oggi vi sono le condizioni per attivare un programma di ripresa in grado di sostenere le imprese, le famiglie e i cittadini colpiti dall’emergenza pandemica e per innescare un nuovo percorso di sviluppo produttivo.
Pasquale Saraceno, alla partenza del processo di integrazione europea, aveva affermato che, in un’Europa comunitaria, la crescita dell’industria italiana sarebbe stata più intensa, facilitando la localizzazione al Sud di una maggiore quota di capitale industriale. Questo tipo di sviluppo non doveva porsi come un’alternativa, ma come un’integrazione del flusso di investimenti generale e l’accumulazione produttiva doveva svolgersi in una logica di mercato, rendendo conveniente l’adozione di tecnologie più moderne e una produttività di livello europeo. Lo snodo attuale ripropone questa stessa impostazione lungimirante, per non fare del Sud un mondo a parte. La lezione concreta di Gabriele Pescatore, ripresa e rilanciata dalle analisi vigorose di Galasso, ha offerto un’immagine del Mezzogiorno in controtendenza rispetto alle logiche di chiusura e autoreferenzialità, perché capace di porre la “questione meridionale” all’interno delle politiche nazionali.
Da questo punto di vista, allora, non vi può essere contrasto tra i temi dei diritti di cittadinanza e i problemi economico-sociali: è solo in un intreccio fertile tra questi obiettivi che può essere riscoperta una vocazione meridionalistica del tutto aggiornata e all’altezza delle sfide attuali. Il Sud non ha bisogno di nuove polarizzazioni ideologiche, ma deve saper leggere in chiaroscuro la sua realtà, che non è fatta semplicemente di arretratezza, per catalizzare le proprie energie positive e compiere un vero e proprio “salto della rana”, come fece con il balzo in avanti degli anni cinquanta e sessanta. Il PNRR può avvalorare una strategia sistemica, all’interno di una visione unitaria e di un unico programma nazionale di sviluppo, in grado di prevedere gli interventi necessari per ricomporre il divario e rimettere in sinergia il Nord e il Sud del Paese.
La nuova prospettiva meridionalistica non è una questione legata alla quantità di risorse da rivendicare. La dotazione finanziaria esistente costituisce una leva poderosa per rilanciare gli investimenti, la produttività e l’occupazione nel Mezzogiorno. Proprio per questo, è indispensabile scongiurare il “paradosso dell’abbondanza”, secondo cui a una disponibilità di risorse consistenti non corrisponde un’altrettanta capacità di progettazione, spesa ed efficacia realizzativa. Il Sud, in particolare, non ha dimostrato di riuscire a impiegare bene i fondi europei e nazionali delle ultime programmazioni, lasciando inutilizzate o sperperando fonti di ricchezza di notevoli dimensioni. In questa circostanza, come afferma Mario Draghi, occorre che il Paese nel suo complesso e, soprattutto, i territori meridionali sappiano spendere e spendere bene.
Nelle misure recenti per il Mezzogiorno, alcuni errori sono stati compiuti, privilegiando le scelte a breve termine e trascurando le iniziative di medio-lungo periodo, come nel caso degli ingenti finanziamenti per il reddito di cittadinanza e per gli sgravi contributivi, che hanno assorbito ogni altra possibilità di intervento. A maggior ragione, è necessario concentrare gli investimenti del Recovery Plan su grandi progetti strategici, in grado di imprimere un big push, come quello propugnato da Paul Rosenstein-Rodan, a tutta l’economia meridionale. La sfida aperta per tutto il Paese è quella di promuovere un nuovo “keynesismo dell’offerta”, capace di valorizzare in chiave nazionale ed europea la risorsa Mezzogiorno, cambiando il modo in cui i finanziamenti arrivano al Sud e vengono utilizzati.
Il nuovo programma per il Mezzogiorno dovrebbe dedicarsi a tre campi di attività fondamentali, distinti tra riforme, investimenti in infrastrutture e investimenti industriali. Innanzitutto, occorre rimuovere il gap delle infrastrutture meridionali, potenziando gli interventi per le reti digitali, la logistica e i trasporti, in un’ottica di aggancio con le vie degli scambi euromediterranei, che, mediante il raddoppio del canale di Suez e l’incrocio con nuove rotte, hanno assunto la centralità di una questione geo-economica globale. In questo quadro, l’attuazione delle Zone Economiche Speciali, superando i gravi ritardi accumulati, serve ad attrarre grandi investimenti interni e internazionali. A questo scopo, è necessario: completare le nomine dei Commissari straordinari introdotti dalla legge di bilancio 2020, adeguandone i poteri e le strutture di supporto; adottare nuove norme di semplificazione, in grado di unificare le competenze amministrative e di accelerare le procedure autorizzative, anche con corsie preferenziali; costituire gli sportelli unici per le imprese in tutte le ZES; integrare e rafforzare il pacchetto degli incentivi già previsti (credito d’imposta, contratti fast track, aree di crisi, sgravi regionali e locali, zone franche doganali intercluse); stabilire un reale coordinamento nazionale degli interventi.
Un altro obiettivo deve essere quello, nell’interesse di tutto il Paese, di riempire il vuoto produttivo ancora ampio nel Sud, stimolando una nuova stagione di investimenti nell’industria privata. Su questo versante, è possibile estendere alle aree meridionali il processo di innovazione produttiva in corso, attraverso l’attivazione di ecosistemi digitali, l’impiego di strumenti automatici di intervento (avvalendosi di un incremento sostanziale del credito d’imposta per gli investimenti) e di accordi negoziali con le imprese (riprendendo, su larga scala, l’esperienza favorevole dei contratti di sviluppo). Inoltre, vale la pena di valorizzare le filiere più progredite, come quelle delle 4A (automotive, aerospazio, agroalimentare, abbigliamento) e della farmaceutica, che già rappresentano la punta avanzata dell’industria meridionale e che possono trainare l’intero sistema verso l’allargamento della base produttiva. Infine, la bioeconomia circolare, intesa come acquisizione di tecnologie che risparmiano scarti ed energia, può inverare un nuovo paradigma di produzione verde, non di pura e semplice sostenibilità, per protendere il Mezzogiorno verso le frontiere europee della green economy.
Il proposito delle riforme per la pubblica amministrazione, la giustizia e il fisco è l’altra faccia irrinunciabile – pena la sospensione o la revoca delle risorse europee – del piano di ripresa. Un aspetto essenziale per il Sud è quello relativo al modello organizzativo. Fermo restando l’articolato assetto già previsto intorno al Ministero dell’Economia e delle Finanze, con due livelli di governance connessi tra loro, appare indispensabile l’adozione di procedure semplificate, sul tipo di quelle sperimentate dalla Cassa per il Mezzogiorno, per favorire l’efficacia degli interventi. Allo stesso tempo, anziché immaginare la formazione di una nuova Cassa, si potrebbe puntare, nell’immediato, a un coordinamento e un’integrazione delle innumerevoli strutture che si occupano di investimenti e di coesione (Agenzia per la coesione territoriale, Invitalia, Investitalia, Cassa Depositi e Prestiti, Mediocredito Centrale, Maeci, Ice, Sace-Simest, Dipartimento per le politiche di coesione, ecc.), provando a evitare la duplicazione e la dispersione di attività, la frammentazione e l’inevitabile ritardo delle iniziative, attraverso uno strumento unitario di gestione, in grado di supportare direttamente le amministrazioni responsabili degli investimenti. In questo modo, si può recuperare un’altra risorsa preziosa di questi tempi, come la capacità di guida degli interventi pubblici nel Sud e in tutto il Paese.
La pandemia ha determinato un senso profondo di incertezza e di scoramento. Tuttavia, le crisi, soprattutto quelle imprevedibili, possono essere, come sosteneva Riccardo Bachi, non solo distruttrici, ma anche stimolatrici e costruttrici di innovazione economica e maggiore benessere. Di fronte agli impegni gravosi, ma anche densi di futuro, che ci attendono, si può far riferimento a un passo de Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, che recita così: “[…] ora non è tempo per pensare a ciò che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che c’è”. E c’è tanto da fare per l’Italia e per il Mezzogiorno.
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