Da anni ho l’impressione che le delusioni nei confronti del processo di integrazione europea di buona parte degli italiani siano dovute soprattutto a delle aspettative irragionevoli. La delusione è spesso rispetto a veri e propri sogni, quasi sempre non condivisi dalla maggioranza dei cittadini degli altri paesi dell’Unione europea. A loro volta, queste aspettative si nutrono di ricostruzioni della storia recente che sono molto diverse dalle narrative che prevalgono negli altri paesi europei.
Questa mia impressione è stata rafforzata dalla lettura di due articoli apparsi domenica 18 aprile. Quello di Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera e quello di Sergio Fabbrini sul Sole24Ore.
Il processo di integrazione europea negli ultimi anni ha fatto molti progressi, ma è ancora molto lontano da una qualsiasi parvenza di unione federale. Non per nulla, nel 2016, Jean-Claude Junker aveva invitato a smettere di parlare di “Stati Uniti d’Europa“, la maggioranza dei cittadini europei non li vorrebbero. Jean-Claude Junker non è l’ultimo arrivato sulla scena europea ed è un fervente europeista.
Recentemente, di fronte alla crisi della Covid, si sono fatti altri passi avanti nella direzione di una maggiore integrazione, ma la situazione non è cambiata in maniera fondamentale. Sviluppi come l’adozione del Next Generation EU e la sospensione del Patto di stabilità costituiscono certamente dei precedenti molto importanti, ma non credo che ci sia stato un vero cambio di “paradigma“, come alcuni sostengono.
È vero che sono state prese molte decisioni di politica economica che solo qualche anno fa sembravano impensabili. Ma la recessione economica del 2020 ha anche avuto dimensioni che sembravano impensabili. Si hanno perfino difficoltà a trovare paragoni quantitativi affidabili. C’è chi va sul sicuro e parla di peggiore crisi dalla seconda guerra mondiale e chi afferma che sarebbe la peggiore crisi da molti più anni.
Ci sono tanti elementi che dovrebbero invitare alla prudenza nel pensare che oggi in Europa si sia in un mondo molto diverso dove si potrebbero fare passi da gigante verso un obiettivo federale. Basta pensare alla politica estera o a quella sull’immigrazione.
Nel campo della politica macroeconomica ci sono stati sicuramente dei cambi molto significativi – per esempio il cambio di comportamento delle banche centrali – ma non c’è stata una modifica fondamentale dei principali orientamenti di politica macroeconomica.
Nel 2008/2009 la reazione dei paesi europei alla crisi economica creata dai crediti sub-prime non è stata molto decisa, ma c’è stata comunque anche allora una risposta delle politiche di bilancio. Nell’ottobre del 2008, la Commissione aveva raccomandato agli stati membri di aumentare i loro disavanzi di bilancio di almeno un punto di PIL oltre a quanto provocato dagli “stabilizzatori automatici“. Nel 2009, il disavanzo di bilancio medio dei paesi dell’Unione europea è stato di quattro punti di PIL superiore a quello del 2008. Si possono avere opinioni diverse sull’adeguatezza di questa reazione, ma non si può descriverla come la reazione di un gruppo di paesi “ossessionati dalla stabilità“.
La crisi del debito sovrano di alcuni paesi dell’eurozona (2010-2012) è stata certo innescata dalla crisi finanziaria del 2008/2009, ma è stata una crisi economica di natura molto diversa che ha sollevato problemi che spesso non hanno avuto nulla in comune con quelli creati dalla crisi del 2008/2009. Per di più, alcuni aspetti della crisi del 2010-2012 hanno messo alla prova la fiducia reciproca tra i paesi membri in una maniera che non si era vista precedentemente.
Ci sono tante critiche da fare al carattere incompleto della costruzione dell’eurozona, ma non si possono dimenticare le circostanze che hanno accompagnato lo scoppio della crisi del debito sovrano con l’appello all’aiuto internazionale di George Papandreu da Kastellorizo il 23 aprile 2010. Si ripete spesso la frase attribuita a Jean Monnet sull’integrazione europea che avanzerebbe grazie alle sue crisi. È un’osservazione giustissima. Ma dal punto di vista della costruzione europea è stata una sfortuna che la prima vera crisi dell’eurozona si sia verificata in un paese la cui spesa pubblica corrente era aumentata del 50 per cento tra il 2004 ed il 2009 ed il cui disavanzo per il 2009, che era stato previsto nel 2,8 per cento a fine 2008, si sia poi rivelato essere pari al 15,1 per cento del PIL.
Come stupirsi del fatto che questo abbia creato delle difficoltà ? Per di più, la decisione iniziale – anche su pressione del nostro governo – era stata quella di evitare il default della Grecia e di aiutarla a ripagare i 330 miliardi di euro di debito pubblico che aveva nel 2010. Era immaginabile che il tema dell’azzardo morale non entrasse nelle discussioni ? Era pensabile che i cittadini/contribuenti degli altri paesi europei potessero farsi carico di un onere del genere senza avere rassicurazioni sul cambiamento di rotta della Grecia ?
Ma la crisi della Grecia diventò una recessione europea soprattutto perché i mercati cominciarono a nutrire dubbi sul futuro della stessa unione monetaria. E questo chiama in causa la risposta alla crisi data dai paesi membri. Nonostante questa situazione molto difficile, si crearono vari strumenti nuovi che aiutarono a superare la crisi. Il processo fu lento e complicato, furono necessarie tantissime riunioni del Consiglio europeo. Si arrivò ad una tappa importante con il Consiglio europeo del 29 giugno del 2012 che, attraverso una serie di decisioni concrete, riaffermò in maniera chiara la volontà dell’Unione europea di continuare l’esperienza dell’unione monetaria. Il successo di questo Consiglio europeo permise a Mario Draghi di lanciare pochi giorni dopo, il 26 luglio 2012, il suo famoso “Whatever it takes“.
Affermare che le difficoltà del 2010/2012 sarebbero state dovute al carattere fortemente intergovernativo dei meccanismi decisionali europei è, secondo me, un errore di analisi. Le stesse divisioni che si sono riscontrate tra i capi di stato e di governo esistevano anche nel Parlamento europeo, nella Commissione europea e tra le opinioni pubbliche nazionali. Ma ancora più importante è il fatto che quando la crisi scoppiò non avevamo gli strumenti per rispondere. I primi interventi consistettero addirittura in una serie di prestiti bilaterali concessi alla Grecia dai singoli paesi dell’eurozona. Come avremmo potuto rispondere con un approccio “comunitario” in queste condizioni? Ogni decisione in campi non previsti dai Trattati, ogni nuovo strumento importante richiede l’accordo di tutti i paesi e deve inevitabilmente passare attraverso un processo intergovernativo.
Far credere che oggi la situazione sia completamente diversa è pericoloso. Se tra qualche anno un altro paese dovesse trovarsi nella situazione in cui si sono trovati la Grecia, l’Irlanda o il Portogallo, non c’è dubbio che ci sarebbe un aiuto finanziario da parte dell’eurozona. Oggi abbiamo strumenti per offrire questo aiuto che non avevamo nel 2010. Ma questo aiuto sarebbe sicuramente accompagnato da condizioni di politica macroeconomica.
Queste condizioni servono ad aiutare il paese facendogli fare le riforme di cui ha bisogno, ma che senza una spinta esterna non farebbe. Sono decenni che la famiglia europea cerca degli strumenti per convincere alcuni membri un po’ scapestrati a cominciare a pensare di più al proprio futuro, nel loro stesso interesse e in quello comune. Tutti i tentativi messi in opera finora – dalle decisioni sulla “convergenza” negli anni settanta e novanta del secolo scorso all’attuale semestre europeo – hanno dato risultati trascurabili e insoddisfacenti. Molti nel nostro paese sembrano non aver notato che il Next Generation EU costituisce un nuovo tentativo di dare dei “denti” a questo quasi irraggiungibile coordinamento delle politiche economiche.
I poteri e la natura stessa della Commissione europea non le permettono di essere molto rigida nel chiedere il rispetto degli orientamenti di politica economica decisi assieme. Il fatto che anche il Consiglio dei ministri e il Consiglio europeo abbiano qualcosa da dire sul rispetto della condizionalità legata alle operazioni del Next Generation EU è uno sviluppo importante che considero positivo. È nell’interesse del nostro paese.
Se le decisioni che sono state prese tra il maggio 2010 e il Consiglio europeo del giugno 2012 fossero state prese in tre o quattro mesi dopo lo scoppio della crisi greca, avremmo forse potuto evitare la recessione che ha colpito tanti paesi europei nel 2012/2013. Questa fu dovuta al fatto che il “contagio” provocato dal default greco in preparazione portò ad un forte aumento dei tassi di interesse sui titoli pubblici di tutti i paesi con finanze pubbliche traballanti. Tutti i paesi che erano in questa situazione presero misure di bilancio restrittive e questo, logicamente, portò alla recessione la metà dei paesi dell’Unione europea.
Ma non è corretto trarre conclusioni meccaniche da questa fase della nostra storia recente. L’austerità (politica di bilancio restrittiva) è finita nel 2015, nell’eurozona e in Italia. Gli altri paesi dell’eurozona hanno ricominciato a crescere. Nel 2019, quindici paesi dell’Unione europea si sono perfino potuti permettere degli avanzi di bilancio e di ripagare parte del loro debito pubblico. Il successo dei “populisti” nelle elezioni italiane del marzo 2018 è dovuto a tante cause e, per la parte economica, è dovuto soprattutto al fatto che l’Italia cresce sistematicamente meno degli altri paesi europei. Nel 2019 non avevamo ancora ritrovato il livello di PIL reale del 2007.
Come mai c’è questo problema specificatamente italiano ? Non sarà che il nostro paese ha dei problemi strutturali che possono essere corretti solo dalle riforme che ci viene chiesto di fare da tantissimi anni ? Si può pensare che la ripresa molto lenta dell’economia italiana, dopo le crisi del 2008/2009 e del 2012/2013 – ripresa molto più lenta di quella degli altri “paesi debitori dell’Europa del sud” – sia dovuta all’assenza in quegli anni di una “Europa solidale” ?
Oltre a tutto, immagino che una “Europa solidale“, nelle intenzioni di chi la auspica, debba apportare risorse finanziarie ai paesi che non ne hanno a sufficienza. Ma negli ultimi otto anni prima della crisi della Covid, l’Italia ha avuto un avanzo non trascurabile della sua bilancia dei pagamenti correnti. L’Italia ha quindi esportato capitali. L’Italia da alcuni anni sta riducendo la sua posizione debitoria nei confronti del resto del mondo. Il problema è che la crescita italiana è bassa (e con lei l’occupazione e la crescita dei redditi) perché chi ha capitali preferisce esportarli piuttosto che investirli in Italia.
L’interdipendenza economica tra i paesi europei è oggi più o meno la stessa di quella che esisteva nel 2008/2009 e nel 2012/2013. Forse è un pochino più forte, ma la differenza non è significativa. L’interdipendenza economica non ci ha aiutati molto dopo le due crisi del 2008/2009 e del 2012/2013 perché non siamo stati capaci di sfruttarla. Gli altri paesi dell’Unione europea sono cresciuti più di noi. Che l’interdipendenza economica ci aiuti nella ripresa dopo la crisi del 2020 non dipenderà da quello che farà o deciderà l’Unione europea, dipenderà da quello che faremo noi.
Ci sono tanti problemi di fronte a noi e non sarà facile risolverli. La ratifica della decisione sulle risorse proprie richiederà molto lavoro politico e non è scontata. Ma parlare di “tallone nazionalista” per le decisioni della Corte costituzionale tedesca è avventato e ingiustificato. I giudici costituzionali, non solo in Germania, sono insofferenti delle ambiguità che tanto piacciono alla politica. Sostengono che sia possibile fare tante cose, ma a condizione di dirlo esplicitamente e di darsi la base giuridica adeguata. Un tribunale belga ha appena messo in mora il governo del suo paese decidendo la decadenza entro un mese di tutte le misure anti-Covid. Questo tribunale non considera sbagliate le misure di per se, vuole solo che siano prese nelle forme dovute e rispettando i dettami costituzionali. Questa messa in mora non è stata decisa da giudici “negazionisti“.
Ci sarà poi sicuramente il problema della reintroduzione del Patto di stabilità, modificato o no. Esiste un vasto consenso a livello europeo per reintrodurre almeno un vincolo per il debito pubblico. Ma modificare le regole attuali sarà molto difficile. Rischiamo di trovarci in una difficile situazione dove la scelta sarà tra reintrodurre il Patto di stabilità nella sua versione attuale o non reintrodurlo affatto (posizione sicuramente minoritaria).
Dobbiamo poi sperare che il tasso di inflazione non risalga per molti anni ancora. Se questo dovesse succedere, la politica monetaria della BCE non potrebbe essere più quella di oggi.
Come persona che è favorevole ad una integrazione europea più stretta, vorrei anch’io che l’Unione europea si dotasse un giorno di una capacità di politica di bilancio permanente. Ma questo non è per domani.
Oggi e domani dobbiamo fare il possibile per rilanciare il tasso di crescita nel nostro paese. Questo, più che spendere risorse (cosa sicuramente necessaria) dipenderà dal creare le condizioni perché i capitali disponibili diventino investimenti produttivi nel nostro paese invece di essere esportati. Questo si ottiene solo facendo le riforme di cui si parla da decenni.
Già portare il tasso di crescita economica al livello di quello degli altri paesi dell’eurozona sarebbe un grosso successo.
L’importanza del Next Generation EU non è tanto nei poco più di venti miliardi di euro di trasferimenti dagli altri paesi europei all’Italia (differenza tra spese fatte in Italia dal Dispositivo per la ripresa e la resilienza ed il contributo italiano al rimborso degli eurobond emessi per finanziarlo). La sua importanza principale è nelle riforme che dovremo fare per ottenere questi fondi.
Dobbiamo utilizzare bene il Next Generation EU anche per aiutare l’Europa, ma soprattutto per aiutare noi stessi. Mettere troppo l’enfasi su quello che succede a livello europeo rischia di far dimenticare che rimuovere gli ostacoli alla nostra crescita dipende da noi. Già oggi troppi rifiutano di riconoscere l’esistenza di un problema di bassa crescita specificatamente italiano e vanno alla ricerca di improbabili capri espiatori esterni. Un’enfasi esagerata sull’importanza degli sviluppi a livello europeo rischia di rafforzare questo processo di rimozione dei nostri problemi strutturali.
Quale può essere l’effetto sulla nostra crescita economica nel 2022-2026 di una decisione di creazione di una capacità di bilancio a livello europeo ? Quale può essere l’effetto sulla nostra crescita economica nel 2022-2026 di una riforma della giustizia che ci dia tempi in linea con la media europea ?
Nel campo economico quello che succede nell’Unione europea è molto importante. Ma quello che facciamo noi è ancora più importante.
(questo articolo con il consenso dell’autore è stato ripresi dal sito www.villavigoni.eu)
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