La recente proposta del Governo degli Stati Uniti di introdurre, a livello mondiale, un’aliquota minima globale del 21% sui profitti delle multinazionali per far cessare le situazioni di concorrenza fiscale tra Stati, solleva una questione ben presente anche nell’Unione europea. Infatti ― al pari di quanto accade fuori ― anche all’interno dell’Unione europea ci sono Stati che stabiliscono basse tassazioni sui profitti delle imprese, dando luogo a quelle situazioni comunemente definite “paradisi fiscali”. Le imprese sono attratte a stabilire, presso questi Paesi, la loro sede per pagare meno tasse sui loro profitti: profit shifting, trasferimento dei profitti. Il trasferimento dei profitti però danneggia i Paesi dove queste imprese di fatto operano e realizzano i profitti che, in conseguenza del trasferimento, perdono somme notevoli di entrate fiscali.
Recentemente, la questione dei paradisi fiscali europei ― definiti dalla Commissione europea “paesi fiscalmente aggressivi” ― è stata argomento di dibattito nella 31^ edizione del Workshop Finanza 2020 organizzato da The European House Ambrosetti, e tenutosi a Villa d’Este il 20 novembre 2020. Dai documenti presentati al Workshop (v.: “Frugali… con i soldi degli altri – La competizione fiscale in Europa e nel mondo”), è emerso che, nel 2017 (ultimo anno per il quale sono disponibili dati), sono stati trasferiti verso paradisi fiscali, a livello mondiale, 741 miliardi di dollari. Per restare nei principali paradisi fiscali creati da Stati che fanno parte dell’Unione europea, 126 miliardi sono stati trasferiti in Irlanda, 79 miliardi in Olanda e 66 in Lussemburgo. Dall’Italia, sono stati trasferiti ― prevalentemente verso Lussemburgo, Irlanda e Olanda ― 26,5 miliardi di dollari.
Il trasferimento dei profitti verso i paradisi fiscali genera presso i Paesi che lo subiscono, come detto poc’anzi, una perdita del gettito della tassazione sui profitti d’impresa, con conseguente danno per l’economia del Paese. Tra i Paesi dell’Unione europea, la perdita stimata è stata del 26% per la Germania, del 22% per la Francia e del 15% per l’Italia. In soldoni, nel 2017 l’Italia ha perso 6,4 miliardi di entrate fiscali sui redditi d’impresa, andati ai paradisi fiscali dell’Unione europea (donde anche il titolo significativo del documento citato prima e presentato a Villa d’Este). C’è ancora un dato che può interessare l’argomento del quale stiamo parlando: l’incidenza delle entrate fiscali per i redditi trasferiti sul totale delle entrate fiscali del Paese paradiso fiscale. L’incidenza è del 90% per Malta, del 67% per l’Irlanda e del 58% per il Lussemburgo.
Dunque, nonostante tutti i “nobili” principi posti alla base della costituzione dell’Unione europea (politiche unitarie in materia di ambiente, agricoltura, commercio, diritti sociali, integrazione economica, libera circolazione delle merci, ecc.), si sono creati, anche all’interno dell’Unione, Paesi con le connotazioni dei paradisi fiscali. La ragione di questa situazione sta nel fatto che i Trattati costitutivi dell’Unione europea hanno disciplinato gli aspetti fiscali soltanto per alcune aree specifiche. Così ad esempio, con riferimento alla libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione (il mercato comune europeo ― MEC fu uno dei primi obiettivi da raggiungere con la costituzione dell’Europa), sono stati aboliti i dazi doganali; in materia di imposte indirette (IVA), è stata abolita la doppia imposizione. Ma, al di là di questi interventi circoscritti, i Trattati non stabiliscono una disciplina fiscale unitaria e organica. Si è giustificato questo comportamento dicendo che si intendeva rispettare le prerogative nazionali in materia tributaria. Cosicché gli Stati sono liberi di stabilire le loro politiche fiscali in assoluta autonomia, autonomia ben espressa nell’art. 113 del Trattato istitutivo dell’Unione.
La norma stabilisce infatti paletti ben precisi disponendo che, soltanto “con deliberazioni assunte all’unanimità”, il Consiglio europeo, osservando una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale può adottare “le disposizioni che riguardano l’armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra d’affari, alle imposte di consumo ed altre imposte indirette, nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno ed evitare le distorsioni di concorrenza”. Va da sé che l’unanimità appare, per fin troppo evidenti ragioni, una condizione irraggiungibile.
E, infatti, i primi oppositori all’aliquota globale del 21% proposta dagli Stati Uniti sono proprio i paradisi fiscali dell’Unione europea che, in ogni caso, si appellano all’appena citato principio dell’unanimità previsto dai Trattati se si ipotizzassero modifiche della tassazione. Semmai passasse l’aliquota uguale per tutti del 21%, ben 16 Paesi dell’Unione europea (Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovenia, Ungheria) dovrebbero aumentare, fino a tale importo, le aliquote da loro applicate sui redditi d’impresa, perdendo quindi la loro attrattività.
Gli Organismi europei si sono posti più volte il problema dell’armonizzazione della tassazione sui redditi delle società anche emanando direttive a questo scopo. Tuttavia sempre sfumate nel nulla, tanto che il Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, durante l’audizione alla Camera del 2 luglio 2020 sul Programma di lavoro della Commissione europea per il 2020, parlando della concorrenza fiscale sleale tra Paesi dell’Unione, ha sottolineato: “Paesi come l’Irlanda, l’Olanda e il Lussemburgo sono veri e propri paradisi fiscali nell’area Euro, che attuano pratiche fiscali aggressive che danneggiano le economie degli altri Stati membri e che, anche grazie a queste pratiche, registrano elevatissimi tassi di crescita. L’esperienza, unica nella storia del nostro continente, di un’unione monetaria accompagnata da una crescente integrazione dei mercati reali e finanziari è sempre più incrinata dall’assenza di stringenti regole comuni fiscali e contributive. Tale vuoto normativo rende possibile ad alcuni Stati membri di porre in essere pratiche di dumping fiscale e contributivo, che possono minare le fondamenta della stessa costruzione europea”.
Il Presidente dell’Antitrust ha parlato, espressamente, di dumping, vale a dire di pratiche scorrette che, applicate all’area fiscale, indicano situazioni di concorrenza sleale allorché gli Stati fissino sistemi di tassazione particolarmente vantaggiosi. Con queste premesse, appare chiaro come una riforma dell’Unione europea che abolisca i paradisi fiscali europei sarebbe auspicabile ― ed aiuterebbe anche le economie dei Paesi virtuosi in drammatica caduta a causa della pandemia di Covid-19 ― , ma è altamente improbabile.
Luciano
Sicuramente un tema che merita attenzione. Resta il problema se è troppo bassa la tassazione in quei paesi o troppo alta negli altri in particolare in Italia. Al nostro paese è a ragione rimproverato di convivere con un eccesso di evasione fiscale che produce anch’essa alterazione della concorrenza tra paesi. Metto tasse alte ma non riesco a riscuotere e rimprovero altri che le mettono più basse ma riescono a incassarle