Martelli con la sua solita arguzia, che non ha perso in questi anni di forzato allontanamento dalla politica attiva, dice due cose sensate sulla iniziativa “Unire i riformisti” animata da varie personalità, associazioni e circoli, e uomini di cultura.
La prima che, storicamente parlando, il riformismo è stato in Italia prevalentemente di matrice socialista sia nella fase della opposizione che in quella di governo insieme alla Dc e agli altri partiti laici come il Pri. Il riformismo si opponeva all’idea comunista di superamento del capitalismo e ammetteva la possibilità di trasformare il sistema “dal di dentro”.
La seconda che, entrando nel merito, per unire i riformisti bisogna avere chiaro un Programma strategico che indichi almeno le principali linee di azione che si vogliono aprire per cambiare il paese. Dire essere riformisti vuol dire poco se non si capisce per fare cosa. Si rischia di richiamarci al “cambiamento” come filosofia di esclusivo movimento senza contenuto. A questa Filosofia appartiene appunto l’esperienza di Renzi.
Sono due considerazioni condivisibili. Ma occorre andare “oltre”. Sulla prima considerazione non c’è molto da dire. Il comunismo non c’è più. Neppure come credibile proposta. Almeno in occidente. A sinistra il socialismo in tutte le salse in cui lo vogliamo declinare ha vinto. E quando la sinistra governa lo fa in nome e con gli strumenti del socialismo democratico. Oggi richiamare il riformismo, e alludere ai principi liberaldemocratici, significa voler andare oltre quella esperienza. E andare oltre non verso nostalgie comuniste e stataliste, non mai sopite anche se si ammantano di nuovi paradigmi ambientalisti e comunitaristi, ma verso impostazioni che riscoprono la vena rivoluzionaria del liberalismo in un contesto infiacchito da assistenzialismo e pratiche collettivistiche.
Quindi nessuno pensa di “riandare” a Zanone e ai liberali italiani. Ma piuttosto di riscoprire la vena rivoluzionaria del pensiero di Hayek, che appare oggi una frusta violenta contro certo capitalismo realizzato, e la vena solidaristica di Rawls che parla di coesione in un contesto di libertà e responsabilità individuale.
Sulla seconda considerazione, anche qui, non si può che convenire. Unire i riformisti deve servire a lanciare una nuova prospettiva per l’Italia. E qui sarebbe bene, sulle grandi partite aperte, lanciare uno slogan: cioè “un grido di battaglia”.
C’è da lavorare e sarebbe bene che i nostri eroi cominciassero a costruire un contenitore credibile in modo da chiamare i migliori cervelli a lavorare per costruire un “Programma Riformista”. Non le solite parole sul valore intrinseco del cambiamento per il cambiamento, qui ha ragione Martelli, ma parole forti su cosa buttare via e su cosa mettere di nuovo sulla “macchina Italia”. Per liberarla dalle zavorre e farla finalmente andare alla velocità delle altre macchine europee.
Non è difficile pensare ai punti di attacco di una strategia riformista. Basta capire che, oggi in Italia, il riformismo o è radicale o non è. Troppe sono le incrostazioni e le corporazioni presenti da inficiare qualunque vagito di riformismo debole.
Da dove cominciare? Difficile dirlo. Ma un punto mi sembra prioritario su tutto il resto. Il Riformismo vero, di stampo liberaldemocratico, non può che cominciare dall’individuo e dal suo senso di libertà e responsabilità. Lo Stato, la società, il rispetto, la solidarietà, le leggi sono strumenti importanti per la vita dell’uomo. Insostituibili. Ma a sostegno di questa “impalcatura complessa” che si è storicamente determinata nei secoli c’è e ci deve essere l’individuo.
Con la sua forza, la sua voglia di cambiare il mondo in cui vive, con le sue idee e la sua voglia di impegnarsi e di misurarsi nella società in cui vive. Questa forza sta riemergendo dal basso. Sta mettendo in discussione Stati e società consolidate. Si tratta di vedere se prevarrà uno sbocco distruttivo e antisociale, come sta accadendo in molti aspetti della vita collettiva e come propugnano molti movimenti che si rifanno ai principi della destra antisocialista, oppure se potrà prevalere un approccio contrattualistico che vede nell’individuo il costruttore di una socialità più forte perché più motivata e scelta.
Allora riformismo e liberaldemocrazia diventano in questo contesto non più parole vuote. Slogan senza contenuti. Ma diventano una strada per uscire dalla crisi della sinistra, condannata nel mondo a rappresentare lo status quo e la conservazione, verso nuovi modelli più dinamici in grado di tenere assieme libertà e responsabilità, merito e bisogno, impegno e solidarietà. C’è una sinistra nuova da costruire. Possiamo chiedere a Martelli, come ai tanti che vengono da una lunga storia, di non fermarsi a guardare indietro ma aiutarci ad andare avanti?
Cosimo Longo
Sono completamente d’accordo sulla tua analisi politica e concettuale di riformismo. È giunto il momento per dare una svolta alla politica ed unire i riformisti sarebbe il primo passo da fare.
mauro grassi
purtroppo c’è una “esigenza oggettiva” ma mancano leader credibili in grado di “far partire” il progetto. Troppo abituati, almeno fino ad oggi, a guardarsi solo l’ombelico….. e a godere di questo