L’inchiesta del super procuratore Robert Mueller ha concluso che non c’è stata l’ombra lunga dei russi sulla vittoria dell’8 novembre 2016 di Trump. È il passaggio importante della lettera di quattro pagine inviata dal ministro della Giustizia, William Barr, ai leader delle Commissioni giustizia di Camera e Senato statunitensi .
Nel fitto reticolato di trame, legami e azioni del Russiagate che in troppi hanno dato per evidenti, sicuri, anzi scontati, è buon senso provare a mettere ordine tra i tanti tasselli che compongono il complesso mosaico. E per ricomporlo ci vuole tempo e pazienza.
Abbiamo assistito al caso di un politico in corsa per la presidenza delegittimato prima ancora di essere eletto.
Un inizio della vicenda lo si può rintracciare nella primavera/estate del 2016, quando l’amministrazione Obama avviò un’indagine sulla base di un dossier, rivelatosi poi falso e finanziato direttamente dalla campagna elettorale di Hillary Clinton volto a dimostrare il coinvolgimento di Trump con il governo di Putin.
I democratici durante l’ ultima compagna elettorale: o hanno consapevolmente utilizzato queste false informazioni veicolate dai russi per delegittimare il presidente eletto. Oppure si sono fatti giocare dai russi, credendole vere o verosimili, per affondare la campagna di Trump e, in caso di sua elezione, mirare, come è avvenuto, azzopparne la presidenza. Delle due l’una!
Gli Usa dispongono di 17 agenzie di intelligence che hanno 107 mila dipendenti e attingono a un budget di circa 60 miliardi di dollari l’anno.
Al di là di hackeraggi e propaganda, Cia, Nsa, Fbi, tutti coloro che hanno messo le mani nel Russiagate, non sono riusciti a provare che Trump abbia vinto grazie agli hacker russi, e che lui e loro fossero d’accordo.
Sotto la pressione dell’inchiesta e dei suoi misteri, Trump ha subito colpi importanti. Michael Flynn, scelto da Trump come consigliere per la sicurezza nazionale si è dimesso. Paul Manafort– ex capo della campagna trumpiana – è stato incriminato.
Dopo 674 giorni di indagini e circa 27 milioni di dollari di spesa qualche interrogativo sul modo in cui si è proceduto è legittimo.In uno Stato di diritto il sistema giudiziario si attiva in presenza di un crimine evidente e di fondati indizi di colpevolezza. L’impressione è che l’inchiesta Russiagate si sia trasformato in qualcosa d’altro. Si è partiti dal “colpevole”, Trump, per setacciare le sue attività finché non si fosse trovato qualsiasi cosa, anche se non ha nulla a che fare con la Russia e le elezioni, per incastrarlo.
In mezzo una stampa indipendente che non ha avuto una posizione di terzietà assediatadai giganti mediatici come Google e Facebook, che sono entrati in campo, schierandosi alimentando disequilibri comunicativi tra privacy, sicurezza, sviluppo tecnologico, politica e informazione.
Come ha fatto notare l’avvocato Alan Dershowitz,si è usato la legge per “spremere” le persone e farle cantare. Il problema è che “le persone non solo cantano, ma compongono. Inventano storie, le esagerano perché sanno che migliore è la testimonianza, più dolce è l’accordo”.
Inoltre una delle chiavi per comprendere l’intera storia, potrebbero essere le “collusioni” tra l’amministrazione Obama e la Russianell’operazione grazie alla quale Mosca ha acquisito anche il controllo di un quinto delle capacità minerarie Usa di uranio. Vicenda minimizzata dai media ma Trump l’ha evocata più volte come prova che “a favorire Mosca, fu la Clinton,” all’epoca segretario di Stato, “che usò la sua carica in cambio di milioni di dollari versati alla sua Fondazione”.
Il tentativo della spallata a Trump da parte dei democratici alimentato dal sottogoverno, dalla burocrazia e dal circuito mediatico giudiziaria assomiglia a qualcosa che noi italiani viviamo da decenni. E che stiamo ancora pagando in termini di solidità economico-finanziaria, posizione in Europa e crisi istituzionale nei rapporti tra politica e giustizia,potere rappresentativo e poteri d’apparato.
Ma non crediamo che sia finita qui.Mueller ha reso il suo ruolo di garante, non tanto di Trump e della sua amministrazione, ma piuttosto della costituzione e della democrazia americana, che da domani fino alle lezioni del 2020 saranno messi alla dura prova per tener saldo il rispetto politico e giuridico tra autorità esecutiva e separazione dei poteri.
E a questo proposito consigliamo la lettura diThe Case for Trump, di Victor Davis Hanson (Basic books), classicista e storico militare, commentatore per la National Review e membro del think tank della Stanford University, Hoover Institution on War, Revolution, and Peace.
Non è un saggio da etichettare superficialmente come “pro Trump”, tutt’altro. Hanson in 400 pagine argomenta come non si deve aver fretta di catalogare “The Donald” grossolanamente senza l’umiltà di studiarlo. Perseverare nella ricerca di scorciatoie e semplificazioni per spiegare fenomeni nuovi, e complessi da analizzare come quello della presidenza Trump significa essere incapaci di affrontare il cambiamento soprattutto quando non è quello che ci aspettiamo e non è quello che preferiamo.
Da annotare il giudizio di Kissinger, che Hanson fa proprio: «Penso che Trump sia una di quelle figure che nella storia appare solo raramente per segnare la fine di un’era». E non siamo ancora in grado di cogliere la direzione della prossima. Perché quando avvengono fatti inaspettati, non sono i fatti a essere etichettabili come imprevisti, ma è la nostra capacità di analisi ad avere qualche problema.
Lascia un commento