Perché?
Da tempo, ogni volta che racconto un aneddoto sulla mia vita, le persone a me care – da mia figlia Marta, che dice: “Vai, ricomincia con la storia della piccola fiammiferaia…”, a Cinzia, ad altri – insistono perché lo scriva, anzi, che scriva la mia storia… da tempo, dicevo, mi interrogo se questa narrazione possa essere utile. La mia obiezione, solitamente, è che la mia storia non ha nulla di originale, che è la storia dei più, ma la loro insistenza non viene meno. L’ulteriore difficoltà sta nel fatto che tranne che per pochi appunti, non ho conservato documenti e relazioni che coprano un periodo di più di cinquant’anni. Ma alla fine è stato questo uno dei motivi che mi ha spinto a provarci. Una sfida alla mia memoria. È bello perché è come una collana, dove un anello è stretto a un altro, dove un ricordo mi fa tornare indietro e mi emoziona, mi spinge a ripensare a cosa non ho fatto e a cosa sono riuscito a fare con la mia testardaggine. Piano piano, nel tirare i fili, è venuta in evidenza una dimensione dell’impegno che ha riguardato migliaia di persone, la loro capacità di reagire e ribellarsi al paternalismo, all’ingiustizia, alla protervia. Attraverso le mobilitazioni, le lotte, milioni di donne e uomini hanno smesso di essere invisibili, di essere usati brutalmente e attraverso l’azione sono diventati cittadini. Sì, erano lotte per il salario, per la sicurezza, per la salute, per le parità, ma erano soprattutto lotte per “la dignità”. Dimensione umana che non si acquisisce una volta per tutte. Che non basta scriverla sulla pietra della Costituzione perché venga rispettata. Personalmente, mentre acquisivo conoscenze e competenze, mi immergevo in un mondo dove etica e idealità si fondevano con la necessità di essere professionalmente seri e rigorosi. Soltanto così, si possono tenere in equilibrio i valori con gli interessi. Se si spinge solo sul primo versante, si rischia di fare moralismo. Se si preme l’acceleratore sul secondo, si casca nel corporativismo. La mia generazione di sindacalisti è riuscita in questo impegno nient’affatto scontato, ma possibile. Al tavolo delle trattative non si poteva improvvisare, la decisione metteva in causa la “condizione materiale dei lavoratori”. E, sbagliando, anche il futuro del lavoro e dell’impresa
In Regione, nelle iniziative pubbliche, e all’estero ero “la Regione” e di nuovo il rigore non poteva venire meno. Era giusto studiare, non essere superficiali, era ed è necessario essere “rossi ed esperti”. Essere innovativi. Si dice che non esistano soluzioni vecchie per problemi nuovi. Il mio attenermi ai valori, essere autonomo dai padroni e dai partiti, sapere che il “nuovo è spesso in minoranza” è il filo rosso che lega questi decenni di impegno. Per chi sono questi ricordi? Certamente per me, per i miei “insistenti” interlocutori, ma forse anche per quanti, soprattutto giovani, si affacciano con gratuità all’azione nel sindacato, nel volontariato, nella politica. Non mi sento un modello da imitare, sono soltanto un “punto di vista”, a cui però sono molto affezionato. Molto di quello che ha segnato il mio tempo è finito e appartiene al compiuto, nel bene e nel male; qualcosa è anche stato spazzato via, qualcosa rimane e ci può indicare il cammino. L’importante è mantenere la capacità di critica, la voglia di rischiare, finanche la forza di indignarci. Ricordiamoci sempre che ognuno di noi ha diritto finché non lede i diritti di un altro. Quelli veri, quelli che non sono il frutto dell’egemonia del potere in ogni sua sfaccettatura. Per dirla tutta in assoluta franchezza e vanto, l’impegno gratuito, la passione, la militanza, dove la lealtà ha sempre fatto premio sulla fedeltà, sono i tratti distintivi di questa storia. E l’amicizia il collante inscindibile che ho condiviso con molti.
L’officina di Vulcano
Si arriva così al 1965, anno che porta con sé la pesante crisi dell’edilizia. Feci allora richiesta di andare a lavorare nella fonderia di seconda fusione, dove avevano già lavorato sia mio padre che mio zio, la Tonolli. Mio zio era morto intossicato, a seguito di malattie respiratorie conseguenti al lavoro, e anche mio padre si era pesantemente ammalato. Ma l’opinione comune era che “avevi un posto di lavoro sicuro e facendo molti straordinari, avresti potuto persino costruirti una villetta”. Mi assunsero nel febbraio del 1966, come operaio, per non farmi fare l’apprendista, che per altro era obbligo di legge (fino a diciotto anni noi avremmo dovuto svolgere il lavoro dell’apprendistato, per impiegare una parte delle ore di lavoro in formazione). C’era questa scappatoia: assumendoci come operai, potevano aggirare questa norma e non farci fare nessuna formazione. Una ulteriore complicazione dell’essere assunto come operaio era che nei contratti nazionali, anche a parità di lavoro, i minori di diciotto anni avevano una retribuzione inferiore. Il primo giorno mi si presentò una scena degna dell’officina di Vulcano: si aprirono alla mia vista enormi capannoni bui, dai quali si spandevano fiammate esplose dai forni; polveri, odori, rumori fortissimi riempivano quell’aria così pesante. E di nuovo mi trovavo in un rapporto di pesante subordinazione. La pesantezza che sentivo addosso era dovuta a due motivi: ai sistemi di disciplina della fabbrica, molto duri, e al rapporto difficile con gli adulti. In quegli anni mi capitò di leggere “Padre padrone”, un libro di Gavino Ledda, che altro non è, se non la storia (sua) di un servo pastore della Sardegna. Gavino Ledda, che sarà poi famoso per essere diventato un bravo glottologo autodidatta, nel suo libro descriveva la durezza e la violenza del sistema agropastorale della Sardegna e la condizione dei servi pastori, il rapporto con la natura e con gli uomini. Se si fa un parallelismo e si trasporta la condizione che lui descrive dalla Sardegna al Nord Italia, nel Milanese sviluppato degli anni ‘60, si ritrova la stessa durezza, la stessa violenza, la stessa asprezza sia nei rapporti in famiglia che in quelli di lavoro. Andavo alle serali e qualche volta mi trattenevo in piazza, dopo le ventitré. Allora mio padre mi insultava, dicendo che così mi avviavo verso la delinquenza. E se ero libero il sabato pomeriggio o la domenica mi procurava dei lavori da elettricista, per non avere delle distrazioni. Osservavo miei coetanei: loro andavano a scuola e io al lavoro, loro erano liberi e io andavo alle serali, loro si godevano i fine settimana e io lavoravo. Avevano il miglior motorino e io una vecchia bicicletta. Ma non ero bravo. E proprio in questo clima incontrai il Sindacato, o meglio i miei giovani coetanei della FIM-CISL. Venivo da un’esperienza di duro lavoro, con poca sicurezza e pochi diritti, e per me questi ragazzi erano dei lazzaroni. Rispetto alle condizioni di lavoro a cui ero abituato nei cantieri, loro avevano la mensa, le docce, avevano come dotazione la tuta, le scarpe antinfortunistiche e gli occhiali protettivi, persino un contratto di lavoro. Fino a quel momento avevo pensato che il lavoro, e non “tutto il superfluo intorno ad esso”, fosse l’obiettivo principale. Le loro contestazioni mi sembravano quelle degli scansafatiche, di chi non aveva voglia di lavorare. Confrontandomi con loro però, discussione dopo discussione, cominciai a capirne le ragioni, a comprendere il motivo delle loro contestazioni, il senso di una serie di azioni. Così incominciarono a coinvolgermi. Anche perché fin dai sedici anni ero abituato a comprare due giornali tutte le mattine: “La Gazzetta dello Sport” e “Il Corriere della Sera”, rinunciando al panino. Ma le signore della mensa mi avevano “adottato”, e mi raddoppiavano la razione di carne e frutta. Ero tifosissimo di Gimondi e particolarmente attratto dalla terza pagina de “Il Corriere”, la pagina culturale. Diventai così un attivista sindacale. Quando comunicai a mio padre che mi ero iscritto alla FIM-CISL, lui, che era stato fra gli organizzatori degli scioperi del ‘43, collettore per la CGIL, socialista massimalista, assetato di cultura e sapere e con poca disponibilità economica, che cercava di far fronte alle precarietà, (condizione che condivideva con mia madre, operaia alla Isotta Fraschini, dove si recava a piedi, seguendo per chilometri il percorso della ferrovia e che quando poté utilizzare una vecchia bicicletta le sembrò di poter toccare il cielo) lui, che si confrontava duramente nei dibattiti con i Gesuiti, non la prese bene. Mi disse: “Proprio con quelli lì?”. E definì la CISL in modo non riferibile. Un sabato mattina mi recai a Milano, in via Tadino, alla sede della FIM-CISL provinciale, dove incontrai Sandro Antoniazzi e Lorenzo Cantù: mi offrirono un bicchierone di grappa, e mi presentarono a Carniti. Pierre mi diede la mano e io, timidissimo, gli dissi “Grazie”. Mi colpì successivamente una fila di persone che se ne stava da una parte: scoprii che Lorenzo e Sandro facevano loro piccole elargizioni. La FIM-CISL organizzava dei seminari la domenica mattina, all’Arengario (in piazza del Duomo). Ricordo lezioni sull’ergonomia e sulle posture, su quanto fosse sbagliato e faticoso avvitare bulloni con le braccia sospese in alto sotto le catene per tutte le otto ore. Cresceva così una generazione di giovani “attivisti” che, coniugando la vita di fabbrica e la formazione, davano il via a campagne di rivendicazioni in fabbrica.
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Cinquemila lire
In quegli anni avevo partecipato ad un concorso per il ruolo di responsabile dei servizi elettrici dell’ospedale che era vicino a casa mia. Una notte, mentre ero di turno, suonò il cercapersone e mi chiamarono in portineria. Era Tino Torrani: mi annunciò che lui avrebbe lasciato la zona e che io avrei dovuto sostituirlo al Sindacato. Alcuni giorni dopo arrivò la lettera che annunciava la mia vittoria al concorso; comunicai però a mio padre che non avrei accettato quell’incarico, che sarei andato al sindacato. Questo avrebbe comportato un dimezzamento dello stipendio che percepivo in fabbrica. Mio padre non la prese molto bene. Feci presente la cosa a Sandro Antoniazzi, il quale però replicò che lui mi avrebbe potuto togliere altre cinquemila lire dallo stipendio già dimezzato rispetto a quanto percepivo alla Tonolli… Nel 1973 passai a tempo pieno al sindacato. Divenni responsabile della zona di Cusano Milanino. Quando iniziai realizzai immediatamente che questo significava, fra le altre cose, rompere con la dura organizzazione della fabbrica (ed entusiasticamente mi buttai nell’impegno), ma non colsi subito, assieme alla dimensione gratificante e “nobile”, quella totalizzante della militanza che spesso si antepone agli affetti e alla famiglia. Mia figlia Marta a quattro anni pensava che facessi il viaggiatore o il ferroviere, ma anche che potessi chiudere le fabbriche e licenziare molte persone, perché ascoltava i miei commenti sulle crisi aziendali e sulle ristrutturazioni; che potessi portare l’acqua alle popolazioni sahrawi sfollate nel deserto, perché ascoltava i miei racconti sul comitato di solidarietà europeo; che potessi costruire case al posto delle tende, perché ascoltava i resoconti dei miei viaggi a Tindouf nel Sahara algerino. Impegno sociale e solidale, lotte sindacali per i diritti e per un miglior salario, oppure contro la chiusura di alcune fabbriche, erano il pane quotidiano per molti sindacalisti in quel periodo a Milano. Dal ‘73 al ‘76 fummo protagonisti di un dispiegamento delle lotte sindacali unitarie delle organizzazioni metalmeccaniche. La crisi petrolifera del ‘73 produsse uno sconquasso negli assetti produttivi e molte aziende andarono fuori mercato, non avendo rinnovato né i processi produttivi, né le produzioni: investivano ancora sullo sfruttamento del lavoro e non sull’innovazione. La crisi inasprì le lotte e per molti versi le rese ancor più difficili, i posti di lavoro iniziarono a scomparire a migliaia, portando ulteriori tensioni politiche. L’unità delle organizzazioni metalmeccaniche cominciò a entrare in crisi: non per quanto riguardava l’unità di azione, ma perchécominciarono a emergere divaricazioni politiche e strategiche su come affrontare la crisi e su come dare rappresentanza alle singole istanze. Per quanto riguarda la FIM-CISL si può dire che ci fosse una certa tendenza al pansindacalismo, ovvero l’orientamento secondo il quale l’azione politico-sindacale inizia e finisce dentro il circuito sindacale, assumendosi anche la rappresentanza dei partiti. A tal punto che “l’Unità”, commentando la relazione di Pierre Carniti al congresso nazionale della FIM-CISL che si teneva nel palazzo della Ragione di Bergamo, titolò sarcasticamente: “Al PCI gliela insegno io…”. Pensavamo infatti che i partiti in quel momento non stessero facendo il loro dovere. Questo ci portò quindi alle accuse di pansindacalismo e di estremismo, ma non cedemmo. Se da un lato ne pagammo le conseguenze, dall’altro si pose il problema di un adeguamento della strategia: rischiavamo di essere travolti. Ma voglio sottolineare che il nostro radicalismo era sempre temperato da pragmatismo: la lotta per la lotta non era mai nel nostro interesse. O la lotta produceva risultati, in termini di negoziazione, di sensibilità, di coscienza politica, oltre che di tutela degli interessi, o altrimenti era movimentismo, che in realtà non ci apparteneva. Studiavamo, partecipavamo a seminari. A Fontanelle di Sotto il Monte, nel romito di padre Turoldo, si teneva un corso di economia per dirigenti della FIM-CISL. Relatori erano Nando Vianello, Checco Cavazzuti e altri docenti della facoltà di Modena. Nando per ben tre notti mi tenne sveglio per spiegarmi l’articolo di Berlinguer dopo il colpo di stato in Cile, dove si sosteneva che non si doveva governare con il 51%. E da lì sviluppava la proposta del Compromesso Storico. Alla Fondazione Seveso chiesi a Luigi Spaventa, che ci spiegava che la borsa era “economia di carta”, consigli per i miei risparmi! Feci da scudiero nel 1973, a Baron Crespo, portandolo a Bergamo al congresso nazionale della FIM-CISL e in altre strutture. Era un rifugiato politico sfuggito alla repressione franchista, e da assessore mi ritrovai a ricevere una delegazione del parlamento europeo. Venni abbracciato di sorpresa da Baron, che si ricordava del tempo trascorso assieme; nel frattempo era diventato presidente del parlamento europeo. Raccontò che non si era mai sentito in pericolo come quando lo portavo in giro con la mia scassatissima Fiat 850. Ma aveva apprezzato il mio stile di guida… A Peter Mandelson, commissario europeo, che in una visita a Firenze sosteneva la necessità di tempi lunghi nel negoziato sui fondi europei, ricordai che occorreva agire rapidamente perché, come sosteneva un suo connazionale (Keynes) “nel medio periodo saremo tutti morti”. Reagì stizzito! Alla Gazzada, in una struttura immersa in un parco stupendo, la FIM-CISL di Milano aveva organizzato, grazie a Luisa Morgantini, un corso sulla storia del PCI: intervennero, fra gli altri, Aldo Natoli, già segretario della federazione romana e ora del Manifesto, e il senatore Brambilla, presidente delle Commissione Centrale di Controllo. Era sorprendente sentire le letture dei due dirigenti, uno che spiegava il “vento del Nord”, ma anche l’ortodossia e l’altro che rappresentava la “lettura romana”. Natoli ci disse però che, in occasione dell’attentato a Togliatti, era salito sul palco per il comizio invitando i compagni alla calma e alla vigilanza democratica, ma con un mitra sotto la giacca.
Ambrogio Brenna è nato nel 1950 a Senago, in provincia di Milano. Vive a Firenze. Inizia l’impegno sindacale nella Fim-Cisl nel 1973 a Milano come responsabile territoriale. Trasferitosi in Toscana sul finire degli anni Settanta, come segretario regionale della Fim-Cisl, ha curato i processi della contrattazione e delle ristrutturazioni dell’industria metalmeccanica della regione. Nel 1988 è stato eletto segretario nazionale della Fim-Cisl con la responsabilità dei settori della navalmeccanica, del materiale ferroviario, della formazione professionale, della siderurgia, delle telecomunicazioni, dell’informatica, del settore degli elettrodomestici e della difesa.
Nel 1998 ha assunto l’incarico di responsabile organizzativo della segreteria nazionale della Fim-Cisl e nel 1999 anche quello di coordinatore della macroregione Centro-Nord (Toscana – Emilia Romagna – Marche) mantenendo ad interim la carica di segretario nazionale della Fim-Cisl. Oltre che nell’attività sindacale è stato impegnato con varie organizzazioni non governative nella realizzazione di progetti internazionali di solidarietà, tra cui Solidarnosc per migliori tecniche di negoziazione e per la ricostruzione della rete di servizi sociali in Polonia e il Fronte Polisario per la difesa del popolo Saharawi. Ha seguito attività di cooperazione decentrata in Croazia, Brasile e Argentina. Dal 2000 al 2010 è stato assessore regionale con le deleghe all’artigianato, alla piccola e media impresa, all’industria, all’innovazione, alla promozione e internazionalizzazione del sistema produttivo e alla cooperazione.
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