A rivedere le immagini di Enrico Letta sui giornali e le tivù, mi è tornato in mente un saggio scritto all’inizio dell’Ottocento da Giovanni Berchet: Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo.
Giovanni Berchet era quello che le nostre antologie definiscono uno scrittore romantico, ed aveva a cuore non solo la letteratura ma anche le sorti della Nazione; tanto che entrò a far parte della Carboneria e trascorse molti anni in esilio perseguitato dagli austriaci.
Scrivendo la “Lettera semiseria”, intendeva spiegare i princìpi della nuova estetica romantica, che ormai andava diffondendosi sempre di più in Europa, e contemporaneamente criticare gli intellettuali classicisti perché rimasti ancorati a delle tradizioni secondo lui antiquate.
Ma che c’entra Enrico Letta con Giovanni Berchet? A mio avviso c’entra, perché il Berchet spiega che la poesia – l’arte in generale – ha necessariamente bisogno di un pubblico che la comprenda, e di conseguenza definisce alcune tipologie di lettore.
Tra le tipologie indicate, ce n’è una che sembra perfetta per descrivere il nuovo segretario del Pd:i Parigini.
I Parigini sono persone raffinate, di elevata formazione, che vivono in quella che nell’Ottocento era la capitale mondiale della cultura; sono razionalisti al massimo livello, abituati a fare ragionamenti complessi, sono dei veri e propri filosofi. Ma se la mente dei Parigini è particolarmente sviluppata, grazie al continuo esercizio cui viene sottoposta, la loro anima è priva di fantasia e il loro cuore si è raffreddato. Per questo, essi possono leggere facilmente la poesia, avendo tutti gli strumenti culturali per farlo, ma non ne sono toccati interiormente: “i canti del poeta appena appena discendono accompagnati da paragoni e raziocini; la fantasia ed il cuore non rispondono loro che come a reminiscenze lontane”.
E dove ha trascorso il nostro Enrico gli ultimi sette anni della sua vita, dopo quel terribile febbraio 2014 in cui fu costretto a suonare la campanella governativa e poi passarla (malgré lui) a Matteo Renzi? A Parigi, è ovvio; dove si è distinto come docente e direttore di un prestigioso Istituto di studi politici.
Certamente qualcuno dirà che Enrico Letta è tornato in Italia per fare il segretario di un partito politico e non per leggere o scrivere poesie. Ma siamo così sicuri che la politica, che poi è anche comunicazione, non abbia bisogno di scaldare i cuori ed emozionare gli animi della gente, oltre che di progettare le strategie vincenti per le prossime elezioni (come quella dell’alleanza con il Movimento cinquestelle di cui egli è un gran sostenitore)?
Non c’è dubbio che sarà perfettamente in grado di interloquire con i vertici di Bruxelles, vista la sua lunga militanza europeista; come pure con il Quirinale e con l’attuale inquilino di palazzo Chigi, grazie ai suoi trascorsi sempre politicamente corretti. Se poi volesse chiamare Macron, saprebbe parlare con lui in perfetto francese. E di certo le sue entrature vaticane/bergogliane sono assicurate.
Ma sarà altrettanto bravo a parlare con il popolo del Pd o quantomeno con quel che ne resta? Ce la farà a toccare le corde profonde dell’animo italiano e popolare che, anche quando è di sinistra, resta sempre un po’ burino e individualista?
Perché un conto è disquisire con gli studenti dell’Istituto parigino su Max Weber o Jacques Delors; un conto è scendere dalla cattedra e provare a spingere gli operai che ormai votano Lega, i pensionati che non escono più di casa per paura del Covid e i giovani che si sono stufati persino delle battutacce di Beppe Grillo, a credere nella politica e in un Partito che ha fatto scappare il suo stesso ex segretario Nicola Zingaretti.
Bienvenue, Enrico Letta. Ma questa volta non stia sereno: con tutte quelle correnti nel suo partito, rischia di prendersi un brutto mal di gola.
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