L’editoriale di Mauro Grassi a commento delle dimissioni di Zingaretti dalla segreteria del PD si conclude con una riflessione amara: “Il Partito si è deteriorato. E non serve solo un nuovo capo. Ma serve un nuovo processo costituente…..Guai a pensare ad un “instant new leader” che non sarebbe in grado di risolvere i problemi di un partito come il PD, nato male e cresciuto peggio”.
Difficile dargli torto. Ma vediamo i numeri. Nei suoi 13 anni di vita il PD ha avuto sette segretari, Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Martina e Zingaretti. Di questi 3 hanno cambiato partito, Bersani, Epifani e Renzi, 2 hanno lasciato la politica attiva, Veltroni e Martina, e solo 2 continuano la loro militanza in posizioni di responsabilità, Franceschini e Zingaretti. Alle politiche del 2008, un anno dopo la nascita e nel momento di maggior forza del polo berlusconiano, il PD prese alle politiche oltre il 33% dei voti, oggi
naviga attorno al 20 per cento e il mantenimento di questa percentuale è considerata da tutti un buon risultato. Sono 13 punti in meno, rispetto alla prima volta che il partito si presentò alle elezioni. In pratica il PD ha perso, ogni anno, l’1 per cento dei suoi consensi.
I fatti parlano chiaro. Così non va. Nel partito c’è qualcosa che non funziona e alla quale bisogna mettere rapidamente rimedio pena l’irrilevanza politica.
Tutto nasce dalla scelta iniziale. Fu fatta una fusione a freddo fra due tipi di riformismo, quello cattolico e quello socialista, versante DS, lasciando volutamente fuori, siamo nei primi anni 2000 con le ferite di tangentopoli ancora in gran parte aperte, tutto il filone socialdemocratico e socialista, versante PSI/PSDI, tanto che la stragrande maggioranza dei voti di quel bacino elettorale finì per confluire in Forza Italia che, all’epoca, aveva ancora al suo interno una consistente componente liberal-democratica. In pratica si lasciò fuori la parte politica che più coerentemente ispirava la sua azione ai principi del riformismo di stampo liberaldemocratico. L’operazione aveva sostanzialmente due ragioni: permetteva alla parte ex Pci di evolversi senza passare da Bad Godesberg e nel contempo accreditava la tesi che il “marcio” di tangentopoli fosse tutto di marca socialista.
In progresso di tempo però il “bug” iniziale ha sviluppato i suoi effetti. E il partito, privo di un più forte ancoraggio liberaldemocratico, ha finito per oscillare fra Scilla e Cariddi, da una parte scelte politiche ispirate al riformismo di tipo assistenzialista e statalista dall’altra al riformismo di marca liberaldemocratica. Dopo la segreteria Veltroni e il breve interregno di Franceschini il partito si spostò a sinistra con Bersani. Rutelli fu il primo ad accorgersi del pericolo di queste oscillazioni. Scrisse un pamphlet dal titolo La svolta – Lettera a un partito mai nato dove denunciava che si stava prendendo una china che avrebbe portato ad una sponda diversa da quella immaginata da Veltroni all’atto della fondazione. Ma il suo grido cadde nel vuoto. Nel novembre del 2009, Bersani aveva vinto le primarie nell’ottobre, uscì dal partito con Bruno Tabacci e Lorenzo Dellai. Dopo Bersani ci fu l’intermezzo di Epifani e poi con Renzi il PD tornò ad una impostazione più liberaldemocratica. Nell’estate del 2018, la segreteria balneare di Martina e subito dopo ecco il deciso spostamento a sinistra di Zingaretti. Ora si profila una nuova pausa di riflessione rappresentata forse dalla Pinotti. Ma può un partito cambiare l’impostazione politica di fondo ad ogni cambio di segretario?
Ecco perché oggi serve un nuovo processo costituente. Il PD, al di là della tattica, deve darsi una strategia e seguirla.
Le opzioni sono solo due. O si punta ad una alleanza con LeU e M5S o ad una con Italia Viva, Azione, +Europa e il variegato e sparso mondo liberaldemocratico. Tertium non datur. E soprattutto non si può più passare da un fronte all’altro perché le due alleanze portano a due politiche diverse.
Restare fermi e/o proseguire con la politica di “un colpo al cerchio e una alla botte” vuol dire solo continuare a perdere voti.
Guido Guastalla
Sono d’accordo con questa analisi.
ps: non capisco l’uso del termine sovranista ed euroscettico. Credo nella sovranita nazionale, intesa come difesa dei valori e degli interessi specifici di ogni nazione sia pure nell’ambito di una Europa federale o meglio confederale ( che potrebbe recuperare la Gran Bretagna senza la quale l’ Europa liberal democratica letteralmente non esiste ), e anche in una moneta unica gestita non in funzione franco-tedesca ( come tento di fare Draghi e ora il suo successore ). Il resto è un uso ideologico del linguaggio politico: