Le vicende che hanno portato alla crisi del Governo Conte e alla nascita di un nuovo Governo presieduto da Mario Draghi hanno destato un comprensibile disorientamento nella comunità democratica, che a Pistoia mi onoro di rappresentare, e in generale nel popolo di centrosinistra. E questo a prescindere dai giudizi di merito che ognuno può dare rispetto all’esperienza conclusasi e alle aspettative di quella che sta per iniziare.
Ebbene, mai come in questa occasione occorre conservare la necessaria lucidità. Farsi condizionare dal sentimento (o, peggio ancora, dal risentimento), infatti, non è mai la strada migliore per comprendere e affrontare i nodi politici.
I paradossi di una crisi dalle radici lontane
Un’analisi che volesse conservare una parvenza di serietà dovrebbe innanzi tutto riconoscere che le radici di questa crisi sono profonde e lontane nel tempo. Un tempo in cui Giuseppe Conte era ancora un oscuro (ai più) professore universitario di diritto. Volendo evitare di farla troppo lunga, possiamo tranquillamente prendere le mosse da una data che ha segnato la storia politica di questo Paese per gli anni (e forse i decenni) a venire: 4 dicembre 2016.
Quel giorno gli italiani furono chiamati a scegliere tra due diversi modelli di sistema politico e istituzionale. Uno, proposto dal PD, di tipo sostanzialmente maggioritario, sul modello in vigore per Regioni e Comuni. Alla base, vi era il principio che in una democrazia compiuta dobbiamo dare agli elettori il potere di decidere “direttamente” quali forze politiche debbano avere la responsabilità di governare il Paese, e ciò per l’intera durata della legislatura; a complemento di ciò, una profonda revisione del bicameralismo “perfetto” e una ridefinizione del rapporto tra Stato e Regioni. La stessa legge elettorale (“Italicum”) era parte integrante di questo impianto e strettamente connessa alla riforma costituzionale.
Contro quel progetto – come è noto – si schierò un vasto e trasversale spiegamento di forze politiche e intellettuali. Fra i moniti che si udirono con maggiore forza vi fu quello di evitare una “deriva” verso una sorta di “dittatura dell’uomo solo al comando”. Ci fu severamente ricordato che i «governi si fanno in Parlamento», essendo quest’ultimo (e non il Governo, vivaddio!) il solo e unico «depositario della sovranità popolare»; che il bicameralismo perfetto è cosa buona e necessaria per la qualità della legislazione; che un governo di coalizione offre più “garanzie” sul piano democratico di un governo monopartitico, eccetera eccetera.
Tutti sappiamo com’è andata. Il popolo italiano decretò, senza ombra di dubbio, che dovevamo tenerci il sistema voluto, decenni prima, dai nostri Padri costituenti: regime parlamentare, bicameralismo perfetto, governi di coalizione, e tutto il resto del pacchetto.
In quel pacchetto, però, c’era anche qualche frutto avvelenato. Perché se è vero che in una repubblica parlamentare i governi si “fanno” in Parlamento, è altrettanto vero che allo stesso modo il Parlamento li può disfare. Come e quando vuole. E lo stesso dire «i governi si fanno in Parlamento», tradotto in prosa e calato nella realtà sta per: «la permanenza delle persone (“popolari” o meno che siano) che occupano cariche di governo (a cominciare dal Presidente del Consiglio) dipende dal gradimento delle forze politiche presenti in Parlamento». Né più, né meno (salvo scissioni, sempre dietro l’angolo in un Paese come il nostro).
Non è certamente il caso di indugiare sugli errori e sulle faziosità di quella stagione, ormai in archivio. Errori e faziosità che vi furono da ambo le parti, ormai possiamo riconoscerlo onestamente. Il punto è che per effetto di quel voto referendario e di quel che ne conseguì (abbandono del sistema elettorale maggioritario con ritorno ad un sistema sostanzialmente proporzionale) si è fornita una potente legittimazione per qualunque partito, foss’anche di minimo seguito elettorale, di poter “staccare” la spina ad un Governo, foss’anche il più “popolare”. Una legittimazione piena, non soltanto dal punto di vista formale-costituzionale (ogni parlamentare rappresenta la nazione senza vincolo di mandato) ma anche da quello politico-sostanziale, perché appunto sancita da quel 60% di italiani che votarono – quanto consapevolmente non è dato sapere con certezza, ma ormai poco importa – per mantenere questo sistema istituzionale.
Con il che non si vuole assolutamente mettere in dubbio la buona fede e le ragioni di quanti lottarono per il No. E però, se vogliamo mantenerci ad un livello accettabile di analisi, non mi pare abbia molto senso che, da un punto di vista sistemico, si strilli contro la spregiudicatezza del “partitino del 2%”, giacché la vicenda in questione si inscrive pienamente in quella logica di governo parlamentare di coalizione per il mantenimento della quale si lottò strenuamente. Vincendo alla grande, peraltro. Il che rende alquanto paradossale che a dolersi maggiormente contro l’operazione messa in campo dal “meno” contro il “più” popolare siano proprio coloro che quella famosa sera brindarono (più o meno letteralmente) alla vittoria del No. Ed è quanto meno lecito dubitare che possano essere proprio loro ad avere il diritto di scagliare le prime pietre dell’indignazione, diciamo. Anzi, diciamolo.
Un paradosso che peraltro, va senza dire, impallidisce rispetto al gesto, a dir poco spettacolare, di colui che, dopo aver rumorosamente fatto irruzione sulla scena nostrana facendosi ragione di vita politica quella di “liberare” il sistema italiano dai veti e lacciuoli dei tanto vituperati “cespugli”, si è incarnato alla perfezione e – duole ammetterlo – con rara maestria nel più spinoso di essi. Mai sottovalutare il potere miracoloso di un voto popolare. Anche a distanza di anni, come si vede, riesce a trasformare l’acqua in vino. E il vino in acqua.
La coerenza e le ragioni di Mattarella
Ma in realtà ben poco ci sarebbe da ironizzare, specialmente quando si faccia questione di uno dei valori che dovrebbero indiscutibilmente conformare un’azione politica degna di questo nome. Mi riferisco, ovviamente, alla coerenza.
Di questi momenti la coerenza viene evocata da molti di noi Democratici rispetto alla decisione del nostro Partito di accogliere l’appello (quasi una implorazione) del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per sostenere un governo di «alto profilo» e non identificabile in «alcuna formula politica». Anche a costo di sedere al fianco di “alleati” a dir poco scomodi, come Lega e Forza Italia.
Ora, premesso che ogni giudizio è certamente legittimo, si dovrebbe – anche qui – cercare di farlo precedere da un’analisi il più possibile consapevole della premessa in cui nasce questa decisione.
La premessa è, come sempre, il contesto.
Chiunque si cimenti, o si sia cimentato, sul “campo” dell’esperienza politica sa – o dovrebbe sapere – che nella valutazione di una qualsivoglia proposta o condotta politica assume un ruolo determinante tutto quell’insieme di fattori e condizioni, materiali e immateriali, che approssimativamente definiamo – appunto – “contesto”.
Il contesto segna la differenza tra lo stimolo intellettuale e il progetto politico, tra la speculazione e l’azione. Gli intellettuali (da prima pagina o da bar di paese) sono liberi di ignorarlo, il contesto (e spesso aristocraticamente lo fanno, ed è anche per questo che trovano sempre meno presa in quel “popolo” le cui ragioni pure pretendono di voler rappresentare). Viceversa, il politico non lo può fare, mai. Men che meno in democrazia.
Tornando a noi, qual è il contesto che costituisce la premessa della decisione – grave, non c’è dubbio – del PD di sostenere il Governo Draghi? In realtà, per trovare la risposta non c’è bisogno di scavare troppo nei retroscena di Palazzo: il contesto è il ragionamento di Mattarella.
Con cruda schiettezza, Sergio Mattarella ha detto, a reti unificate, che ci vuole un governo di “alto profilo” sostanzialmente per due ragioni: portare a termine il piano vaccinale e riuscire a presentare il Recovery Fund. Ma non si è limitato a questo. Ha anche detto, papale papale, che se si andasse al voto i rischi sarebbero enormi, sia con riferimento ai morti (che potrebbero aumentare) che ai soldi (che potrebbero non arrivare).
Ora, come ha rilevato un osservatore acuto come Mattia Ferraresi (Domani, 11 febbraio), le ragioni di Mattarella, come tutte le ragioni, possono essere accolte o respinte. Se però vengono accolte, tutta – tutta! – la questione del Governo si sposta su un altro piano. Un piano in cui perfino la coerenza “scala” di posto e passa in seconda fila.
Accettare le “ragioni di Mattarella” significa infatti accettare di sostenere un governo che si collochi al di sopra della normale dialettica politica. E significa anche – per quanto possa sembrare insopportabile – che esso si collochi al di sopra della coerenza. La coerenza è certo un valore; ma perfino la coerenza può e deve cedere di fronte a ragioni di ordine superiore, come il destino (presente e futuro) di un intero Paese. Identificare la coerenza come una sorta di grundnorm (norma fondamentale) non negoziabile dell’azione politica, costi quel che costi e perisca pure il mondo intero (nel nostro caso, letteralmente), è il gesto meno politico che si possa compiere. Perché il meno rispettoso del contesto. Soprattutto quando è un contesto fatto di vite umane, di esistenze concrete messe terribilmente a rischio, sanitario e sociale, da un fenomeno di proporzioni epocali.
Di fronte a un tale scenario, tutto passa provvisoriamente in secondo piano: le incompatibilità ideologiche, le distanze inconciliabili tra noi e gli altri. E questo perché il nostro Presidente della Repubblica, facendosi interprete e carico della vita (è il caso di dire) di una intera comunità nazionale, ci ha chiesto di accettare quel che fino a un attimo prima era inaccettabile sul piano della coerenza. Che è importante ma non è tutto. E non è “sempre”. Ecco, cerchiamo di non commettere nuovamente l’errore di identificare, in modo totale e totalizzante, la politica con la coerenza, l’identità con la purezza, il rigore con la rigidità. La politica non è una pura applicazione “ingegneristica” di modelli (di etica, di società, di città, ecc.) alla realtà, ma paziente valutazione e composizione di interessi in un contesto dato. Un contesto che si può ambire di cambiare nei suoi tratti di ingiustizia e disvalore, certo, ma mai ignorare. Anche perché, alla fine, la realtà è assai più dura di qualunque modello costruito a tavolino, sia pur mirabilmente.
Conte, Mattarella, Draghi. E il PD?
Ma sto già scivolando dal piano dei fatti a quello delle opinioni. Del resto, una volta collocati i pezzi sulla scacchiera dell’analisi, è giunto il momento di iniziare la partita ed entrare nel merito.
Personalmente, non ho dubbi nel dare un giudizio negativo sulla decisione di Renzi di aprire una crisi di governo costringendo alle dimissioni Giuseppe Conte. Vi era certamente una necessità di rinnovare e rilanciare l’azione di governo, ma la scelta di aprire una crisi in un momento così delicato di gravissima emergenza, con la campagna vaccinale agli inizi e la necessità di gestire e utilizzare al meglio le imponenti risorse stanziate dall’Unione europea, ha denotato uno scarso senso di responsabilità, oltre che risultare francamente incomprensibile ai più.
Apertasi la crisi, la posizione del PD è stata limpida e leale. E bene abbiamo fatto a sostenere con lealtà, fino a quando è stato possibile, la riconferma di Conte a Palazzo Chigi. Un atteggiamento che ha certamente rafforzato il legame fiduciario con il Movimento 5 Stelle, un legame che ha poi consentito di “traghettarlo” (non senza difficoltà, peraltro) verso un sostegno al Governo Draghi.
Ecco, sarà bene forse chiarire a dovere questo aspetto, evidentemente sfuggito a qualcuno: con buona pace di Mattarella e dell’Europa, oltre che di Renzi, senza il via libera del Movimento 5 Stelle il Governo Draghi non ci sarebbe stato, neppure come ipotesi. Un via libera di cui il PD può a buon titolo attribuirsi una significativa parte di merito. Sta tutta qui l’essenza profonda della gestione (e soluzione) della crisi, se non ci si vuol fermare ad una lettura superficiale di quanto accaduto in queste ultime convulse settimane. Accusare il PD di “schiacciamento” sul M5S vuol dire commettere l’errore di cui si diceva poco fa: ignorare un contesto. Un contesto in cui il gruppo parlamentare di gran lunga più numeroso (quasi un terzo di deputati e senatori) è ormai divenuto una galassia internamente segnata da un altissimo grado di instabilità. Essere riusciti a tenerlo insieme e farlo convergere, almeno per la gran parte, sull’ipotesi Draghi tutto è stato – in qualunque modo lo si voglia giudicare – fuorché un appiattimento. Ecco allora che, rispetto all’approdo finale di una crisi voluta da altri, un approdo indiscutibilmente migliore di un voto anticipato, la posizione del PD si è rivelata non solo leale ma anche la più utile.
La storia, e prima ancora i cittadini, esprimeranno il giudizio finale sulla bontà o meno delle scelte che sono state compiute in questi tempi così duri e difficili. Anche di una certa spregiudicatezza, certo legittima sul piano del sistema, ma che a ben vedere poco o nulla c’entra con il genuino riformismo. Le riforme sono una cosa seria, implicano gradualismo e condivisione, non si possono fare disinvoltamente con… chi ci sta al momento, nei giorni pari con la tua destra e in quelli dispari con la tua sinistra. Ci vuole chiarezza nella condotta e lealtà nei rapporti, altrimenti si rischia di rimanere isolati nei momenti cruciali, come accadde proprio nella vicenda referendaria del 2016. Una lezione che stiamo ancora tutti pagando a caro prezzo, anche se non tutti, evidentemente, ne hanno tratto il dovuto insegnamento. Anche perché l’aver accettato le ragioni di Mattarella approdando al Governo Draghi è stato, nelle straordinarie condizioni date, un rimedio necessario per combattere un male estremo; ma ciò non implica affatto ritenere che il sistema abbia compiuto un passo in avanti sul piano della dialettica democratica.
E tuttavia, resto convinto che il PD, nel sostenere un Governo di unità nazionale per combattere un’emergenza di portata mondiale, abbia fatto la scelta giusta, la scelta più politica che si potesse compiere, perfino la più… coerente con una storia fatta di responsabilità e senso del dovere. Vorrei che non dimenticassimo tanto presto l’immagine a reti unificate di Sergio Mattarella al termine delle consultazioni. Quella sera, davanti ai microfoni, curva sotto un peso insostenibile, ferita a morte da una pandemia terribile, stremata e disperata, una nazione intera chiamò alla responsabilità. La risposta, per noi, non poteva essere che una e una soltanto.
Roberto Agnoletti
Giustissimo il riferimento al contesto senza il quale certe scelte risulterebbero incomprensibili ai più, così come è stato importante il dialogo continuo con la galassia del Movimento 5 stelle… ma anche gli esiti del referendum del 2016 devono essere letti nel contesto di quegli anni, recenti ma già lontani. E a complicare il sistema non c’è solo quella mancata riforma cui ti riferisci, ma anche quella prodotta dall’ultimo referendum (taglio dei parlamentari) non ancora accompagnata da una nuova legge elettorale.
Gianfranco
Concordo. Si è sentito dire che, nell’accettare l’appello di Mattarella, la politica avrebbe fatto un passo indietro. Direi il contrario. Sfrondando gli atteggiamenti dall’opportunismo, dal pressappochismo e da tutte le ragioni più o meno nobili, resta una responsabile ed estrema, temporalmente parlando, presa d’atto. In definitiva , direi, un passo in avanti.
DANILO MALQUORI
L’analisi riporta i fatti ma con molte lacune, non si dice che prima della crisi si era tentato in tutti i modi di trovare delle soluzioni all’immobilismo di Conte , peraltro rilevato sotto sotto anche dal PD, che la ricerca dei responsabili è stata avviata da Conte (li asfaltiamo) spero con il consenso del Pd altrimenti era insignificante, che al tavolo del Conte Ter si era arrivati con un o “mangiare sta minestra o saltare dalla finestra” non accogliendo alcuna proposta programmatica di IV ma offrendo solo poltrone di persone sacrificabili. Quindi rilevando queste mancanze mi sembra si voglia più trovare una scusante all’immobilismo politico del PD che fare una lucida disamina dei fatti. Colgo comunque un qualcosa di buono nelle osservazioni che chi denigra le mosse del partitino del 2% sono proprio coloro che il 4.12.2016 permisero questo tipo di possibilità, evidentemente per alcuni a loro esclusivo appannaggio.