Il 9 novembre del 1997 Antonio Di Pietro venne eletto senatore con oltre il 67% dei voti nelle elezioni suppletive del Mugello, dove quello che era stato il PCI si chiamava PDS continuando a mantenere lo stesso consenso di prima. Cosa c’entrasse Di Pietro con la storia e la tradizione politica degli abitanti di Barberino, di Vicchio o di Borgo San Lorenzo, lo sapeva solo D’Alema che ne aveva voluto la candidatura per assorbire politicamente l’eroe di Mani Pulite. Poi si è visto come è andata. Il ricordo di quel fatto ormai lontano è stato inevitabile quando abbiamo letto dell’ipotesi di una candidatura di Giuseppe Conte nel collegio uninominale di Siena. Dopo quasi un quarto di secolo le cose sono cambiate e ora fare eleggere l’avvocato del popolo (finalmente potrebbe dire di essere stato votato da qualcuno) dovrebbe essere il partito di Zingaretti e quello di Grillo. Tutto è diverso meno una cosa: la mania dei gruppi dirigenti romani del PD di utilizzare la Toscana come portafoglio elettorale di riserva. Allo stato dell’arte quasi tutti gli esponenti toscani del Partito Democratico hanno risposto picche all’ipotesi che hanno del resto letto sul Corriere della Sera, costringendo lo stesso Zingaretti a dire che sarà rispettata l’autonomia dei territori. Come sarà rispettata questa autonomia lo vedremo nel futuro, ma è legittimo dubitare che la questione sia chiusa, anche se lo stesso Conte dice di non saperne nulla. Zingaretti e con lui una parte del gruppo dirigente del Partito, sia che provenga dalla cultura postcomunista che da quella cattolica di sinistra, vedono ormai come unica prospettiva politica l’alleanza con il movimento di Grillo, illudendosi di averlo o di poterlo redimere dal populismo originario. Si tratta di una rinuncia rispetto a qualsiasi vocazione maggioritaria (anche se da affermare quando possibile) e di fatto, come si è visto nell’esperienza del Conte bis, pronta a tutto pur di soddisfare le esigenze di sopravvivenza dell ‘alleato un tempo furiosamente ostile. Alla fine, si può supporre che, se ci fosse davvero da trovare un posto al garante della nuova supposta e composita sinistra, un pensiero su Siena potrebbe tornare fuori. Il motivo: la classe dirigente toscana del PD ha poco peso sul piano nazionale, malgrado il consenso elettorale. Lo riconosce lo stesso sindaco di Firenze, Dario Nardella, quando si lamenta che nel passato governo non ci sia stato un ministro toscano e si augura che ce ne possa essere uno con Draghi (ma si può…?). Se ci fosse un pensiero politico autonomo, sarebbe facile dire a Roma che se c’è una regione dove il M5S conta il giusto, questa è la Toscana. Il PD toscano fa i conti con i problemi irrisolti al suo interno con ciò che resta dell’eredità di Renzi, per cui alla fine Zingaretti e compagni non hanno torto nel domandare quale sia la candidatura locale di cui i toscani parlano. Staremo a vedere, ma non c’è da aspettarsi che se Rossella (pardon, Roma) chiederà spazio alla Toscana in nome del destino futuro di Giuseppi, ci sia un Clark Gable che le volti le spalle e abbia la forza di dire “Francamente me ne infischio”.
(questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Fiorentino di giovedì 11 febbraio)
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