Con la convocazione, pochi minuti fa, di Mario Draghi da parte di Sergio Mattarella per il conferimento dell’incarico per un Governo Istituzionale di alto profilo si consuma la fine di un’intera stagione politica. Quella dell’“uno vale uno” ma al ribasso, quella della pancia e dei “vaffa”, quella dell’“Università della strada”, quella degli appelli demagogici e populisti fatti sulla scia pulsionale della propria impreparazione politica e culturale, quella del “governare è fondo semplicissimo, basta ragionare come fa un buon padre di famiglia”. È la stagione politica che hanno voluto gli Italiani, perché loro – benché sei su quattro, e quei sei erano grasso che colava – hanno votato in larga maggioranza questa classe politica, e l’hanno voluta provare.
Ma la realtà è alla fine più dura di ogni testa caparbiamente spersa nelle sue illusioni. Pochi mesi, un invisibile vibrione – e i morsi della crisi economica e sociale nelle caviglie che esso ha scatenato in silenzio – e anche l’ultimo degli ingenui si rende oggi conto, anche se non lo confessa, che per gestire un mondo così complesso e interrelato servono razionalità e ragionevolezza, e responsabilità in scienza e coscienza, non pressapochismo e maquillage, meglio se sui social e su Tik Tok.
Con l’epilogo di questa surreale crisi politica perdono alla fine tutti, anche se chi più o chi meno. Perde la retorica pentastellata, abbarbicata a quel delirio del 32% nel 2018 via via sfarinatosi sino a percentuali irrisorie che le prossime elezioni tuti sanno mostreranno impietosamente. Perde l’angosciante immobilismo del PD, ormai incapace da tempo di qualunque parvenza di egemonia politica e di proposta di prospettiva, e da non so quanti anni inchiodato, almeno nei sondaggi che temo benevoli, a quel 19/20% che penso a questo punto messo lì di default dagli Istituti demoscopici. Perde la trivialità della Lega di Matteo Salvini, ondeggiante – a seconda della sua percezione del vento (ma rivelatasi sempre sbagliata) – tra il “riapriamo tutto tanto il virus è scomparso” e il “riserriamo ogni cosa, perché la malattia la portano sui barconi”. E, sulle sue ceneri, perde anche la sua staffetta, Fratelli d’Italia, incapace di andare oltre gli schiamazzi da mercato centrale, dove – senza alcuna cognizione della tenuta dei nostri conti pubblici – si grida al rialzo della merce offerta, tanto poi chi paga si vedrà.
Perde Matteo Renzi, e perdono anche quelle patetiche isolette permalose come Azione, Più Europa e arcipelago circostante, che forse hanno per primi gridato che il re è nudo ma che si sono rivelati sinora del tutto incapaci e impreparati a proporre una seria strategia politica liberale, democratica e progressista. Forse questo epilogo era ciò che Italia Viva aveva intesta. E la partita di scacchi l’ha giocata con cinismo, dando scacco al Re. Ma non è stato scacco matto e chiunque pensi che – nel prossimo Governo Draghi – vi siano cariche di ministro di tipo politico e di fedeltà renziana, beh dovrà amaramente ricredersi. Ed è giusto così.
Qualcuno dirà che ha perso la politica. Io dico che ha perso quella con la “p” minuscola, e che il trauma di queste ore rappresenterà finalmente un’opportunità per il ritorno di quella la maiuscola. Mattarella ha di fatto commissariato quella politica piccina, e l’ha fatto sia rispettando ogni principio costituzionale, sia – nel momento in cui la Costituzione lo ha lasciato solo di fronte alla responsabilità di fare una scelta – spiegando brevemente, ma con estrema efficacia, il perché della sua decisione, e – nel giro di pochi minuti – tale decisione mettendola in pratica. Un Gigante. E un Gigante Mario Draghi. Chi davvero avrebbe peraltro il coraggio di considerarlo solo un tecnico? Preparato e affidabile, ha non solo – insieme ad Angela Merkel – salvato l’Europa nel momento più buio ma ha predisposto, da vero Statista, le armi e le condizioni– il “whatever it takes” – della sua rinascita.
C’è un compito ciclopico che ci aspetta nei prossimi due mesi: predisporre un vero recovery plan, dare garanzie della sua fattibilità e mostrare che siamo capaci di non disperdere i soldi che un’Europa finalmente più solidale ha accordato, per la prima volta nella sua storia, ai suoi membri. Non è questione di denaro. Da quei finanziamenti dipende davvero il futuro del nostro Paese e della democrazia, nostra ed europea. E per guardarlo, anche se da lontano – come sempre è accaduto nei momenti cruciali della Storia – occorre salire sulle spalle dei Giganti.
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