- Quali sono i geni utili che dalla esperienza del PCI si rintracciano nella vicenda storica italiana, contro quali vizi o derive può contribuire ancora oggi a difendere la sinistra in primo luogo ma assieme la società e la politica italiana?
- E quali sono i geni dannosi trasmessi in eredità che hanno contribuito e contribuiscono a frenare le potenzialità ed a condizionare il ruolo e l’azione della sinistra per il cambiamento del Paese?
Metterei insieme le due questioni, anche perché discutere dei “geni utili” e di quelli “dannosi” lasciatici in eredità dal PCI dipende ovviamente dal giudizio complessivo che ognuno dà di quella esperienza, come mi pare dimostri anche il bel dibattito stimolato da Solo Riformisti.
Non c’è dubbio che il comunismo abbia rappresentato una di quelle vicende che hanno cambiato la storia del mondo, ed è altrettanto indubbio che la vicenda dei comunisti italiani abbia avuto una influenza fondamentale per la storia del nostro Paese. Come ha scritto Silvio Pons, autorevole studioso del comunismo e dell’età contemporanea, «Nel corso del XX secolo, il comunismo ha segnato la vita e la morte, le speranze e le paure, i sogni e gli incubi, le identità e le scelte di buona parte dell’umanità. Non è facile indicare un solo aspetto significativo della storia mondiale del secolo passato che non abbia a che fare con esso e che non abbia conosciuto la sua influenza».
Naturalmente, quando ci si trova di fronte ad eventi epocali come questi occorrerebbe guardarsi da giudizi sommari e liquidazioni affrettate. Si racconta che Mao Tse Tung, alla domanda su cosa pensasse della rivoluzione francese del 1789, avesse risposto «mi sembra ancora troppo presto per esprimere un giudizio». E parlava di un evento accaduto due secoli prima.
La nascita del PCd’I (secondo la denominazione dell’epoca) segue di pochi anni l’altra grande rivoluzione avvenuta sul suolo europeo, quella dei “soviet”. Non è possibile comprendere quel che accadde a Livorno nel 1921 senza tener presente quel che era accaduto a Pietrogrado nel 1917. E sono anch’io d’accordo sul fatto che la Rivoluzione d’Ottobre abbia avuto un peso determinante sulla diffusione nel mondo del comunismo, che altrimenti sarebbe rimasto confinato nell’iperuranio delle possibilità teoriche e avrebbe probabilmente fatto la fine dell’anarchismo: qualche circolo ristretto, un paio di cantautori, nessuna incidenza sulla vita politica e sociale del proprio tempo.
Ma, al tempo stesso, è impossibile ignorare quanto profondamente abbiano inciso sulla vicenda del comunismo italiano (e sulla intera storia nazionale) tutta una serie di eventi tali da determinarne una vera e propria “metamorfosi”, come l’ha efficacemente denominata Luciano Canfora: la lotta al fascismo, la Resistenza, la Costituente. Un passaggio storico epocale che dal 1944 si condensa in pochi anni e in alcuni momenti decisivi, il primo dei quali è rappresentato dalla ormai celeberrima “svolta di Salerno” di Togliatti. Da quel momento il PCI diventa un’altra cosa, si fa partito “nuovo”. Forse oggi non ci rendiamo conto di cosa abbia significato la vicenda di un intero popolo indotto a deporre le armi ancora fumanti della guerra di Liberazione per essere “traghettato” verso un’idea in cui il socialismo si costruisce in una cornice di democrazia, attraverso la faticosa e paziente ricerca del consenso, e non si impone con la violenza rivoluzionaria e con il sangue. Da qui un altro passaggio decisivo, i cui frutti ancora nutrono tutti noi: la Costituzione. Una svolta innanzitutto culturale: la Carta costituzionale non più guardata con sospetto quale strumento di potere “borghese” ma che diviene potente mezzo di emancipazione delle masse. Un’impresa il cui valore politico, prima ancora che storico, è stato e rimane indiscutibilmente enorme.
Comincia così un’altra storia, di certo non esente da errori e responsabilità (la prima e più importante: aver “bloccato” per decenni la democrazia italiana, di fatto impedendo ogni possibilità di alternanza). E non esente da contraddizioni, che hanno forse segnato quella storia più d’ogni altro aspetto. E se forse sarebbe bene lasciare agli storici il giudizio storico, forse se ne può tentare uno politico. Che, però, secondo il mio parere non può non poggiare su alcune premesse di base.
Spesso si sente parlare del comunismo come una grande “utopia” o un grande “ideale”. E tuttavia, per quel che ho capito dalle letture e dalle testimonianze, mi pare che definirlo solo così sia parecchio limitativo.
Il comunismo, nella teoria e nella pratica, è stato molto più che un ideale o un’utopia. È stato un grande, grandioso progetto politico. Un progetto che scaturiva da un’analisi, che voleva essere scientifica, della società, dell’economia, della politica, perfino della storia. Un’analisi condotta per la prima volta (e questo è un merito che rimarrà incancellabile) dal punto di vista degli oppressi e dei senza potere, che disegnava la mappa di una società divisa in classi, determinate dal concreto atteggiarsi dei rapporti di produzione; una divisione che aveva da essere radicalmente abbattuta, perché solo così sarebbe nata una società senza sfruttamento e senza conflitti, dove ciascuno avrebbe ricevuto “secondo i suoi bisogni”. Siccome però quello era un progetto politico e non uno sfogo intellettuale, fatta l’analisi veniva anche proposta la soluzione: l’abolizione, e successiva collettivizzazione, della proprietà privata dei mezzi di produzione, vero e proprio fulcro archimedeo su cui fare leva per rovesciare l’universo mondo. Solo così – si predicava – si sarebbe potuto realizzare il socialismo in terra, in barba ad altre opzioni “revisioniste” quali quelle rappresentate dall’odiata socialdemocrazia, che per lungo tempo verrà dipinta come il luogo del tradimento dell’idea originaria.
Questo nucleo dottrinale originario dell’anticapitalismo e della collettivizzazione come necessario preludio ad una società senza classi ha resistito – almeno su un piano di principio – fino alla fine, fino alla caduta del Muro. Del resto, quel “nucleo” era ciò che distingueva politicamente i comunisti da tutti coloro con i quali pure condividevano le più nobili aspirazioni di uguaglianza e giustizia sociale: socialisti, socialdemocratici, cattolici democratici e tanti altri. E questo – bisogna dirlo – anche in Italia, dove pure il comunismo aveva intrapreso (e anzi contribuito a costruire) una strada lastricata di libertà, di democrazia, di rispetto per lo Stato di diritto e le sue istituzioni. Anche quando ai vertici di quelle istituzioni (questure, prefetture, tribunali) sedevano a volte gli stessi sgherri dell’era fascista. O a costo di lasciarci la pelle, come accadeva durante gli anni di piombo o nelle terre di mafia.
Ecco allora le contraddizioni, la famigerata “doppiezza”, di quella storia. E però, almeno si risparmi ai comunisti l’etichetta di utopisti o sognatori, come fa oggi un certo folclore, non sempre politicamente disinteressato, anche a sinistra. Era gente concreta, quella, a tratti dura, che sapeva far politica e amministrare, e sapeva anche – quando necessario – praticare l’arte del dialogo e del compromesso; dipingerli oggi alla stregua di virginali acchiappafarfalle vagheggianti un indefinito quanto velleitario “altro mondo possibile” significa far loro un torto che certamente non meritano, oltre a commettere un marchiano errore storico e politico.
Per la verità, a sentir la testimonianza di molti di coloro che in quel partito militarono, specie nell’ultima fase, sembrerebbe che la loro adesione fosse stata determinata più dai riti e rituali che dai dogmi e dalla dottrina. Una condizione – e contraddizione – resa in modo efficacissimo dalla straordinaria metafora impersonata da Michele Apicella, il dirigente comunista protagonista del bellissimo Palombella Rossa di Nanni Moretti (1989), che alla fine di una combattutissima partita di pallanuoto confessa come fosse diventato un pallanotista non perché gli piacesse lo sport in sé, ma per i momenti vissuti con i compagni di squadra, le trasferte, gli insulti degli avversari, lo spogliatoio… uno stare insieme condividendo con altri un tempo e uno spazio, dalla stessa parte.
Del resto, come ha recentemente ricordato Piero Fassino, negli anni ottanta perfino il New York Times aveva scritto che il PCI era ormai diventato un partito riformista, che di “comunista” aveva solo il nome. Un partito nei fatti riformista (e convertitosi alla causa europeista, dopo una lunga diffidenza), che però – ricorda Fassino – continuò fino all’ultimo a sperare che il comunismo sovietico potesse evolversi democraticamente, e continuò fino alla fine a coltivare un innaturale pregiudizio verso parole come “socialista” e “riformista”. Ancora contraddizioni.
Ma, tornando al discorso sul progetto politico, occorre dirlo senza infingimenti e con la schiettezza che il caso impone: quel progetto è fallito. Un fallimento decretato, con verdetto univoco e inappellabile, dal tribunale della storia, testimoni la vita (e la morte) di milioni di esseri umani. Un fallimento rovinoso ed epocale (come lo era il progetto, del resto) su ogni piano: economico, sociale, politico. Un fallimento con il quale i comunisti italiani – pur così diversi nella loro ortodossia – avrebbero evitato di fare i conti fino in fondo, come ebbero ad ammonire giganti come Norberto Bobbio e Vittorio Foa nonché intellettuali “d’area” come Aldo Schiavone.
Dopo di che, resto convinto che la storia non sia giunta al capolinea. Prima o poi accadrà che una forza di pensiero e di pratica lanci una nuova sfida al cielo. Una sfida che si esprima in un progetto, non in un lamento (come oggi troppo spesso si legge). Una sfida che, ancora una volta, costringerà i contemporanei a “posizionarsi” politicamente e culturalmente rispetto ad essa. E però, sarà – dovrà essere – una sfida diversa da quella comunista. Perché se è vero che la storia non è finita, è altrettanto vero che quella storia lo è. Irrevocabilmente.
Ma questa nuova sfida, quando sarà, non potrà ignorare una delle grandi lezioni che il secolo passato ci ha definitivamente consegnato. Nella sua autobiografia “Anni interessanti” il noto storico inglese Eric Hobsbawm – comunista mai pentitosi – richiama alcuni versi della poesia “Ai posteri” di Bertolt Brecht: «Ahimè noi, / che volevamo preparare il terreno per la benevolenza, / non potevamo essere benevoli». Secondo Hobsbawm questo verso parla dei comunisti «come nessun altro ha saputo fare».
Eccola, allora, la lezione del Secolo Ventesimo: fino a quando albergherà negli umani il miraggio illusorio di perseguire la “benevolenza” usando la violenza, di garantire la “liberazione” tramite l’oppressione, di realizzare domani un “Bene” assoluto praticando oggi un male “necessario”, fino ad allora la vicenda dei comunismo – in tutta la sua secolare parabola – non dovrà smettere di ammonirci. Ma, allo stesso modo – a proposito di “geni utili” e “geni dannosi” -, non dovremo mai smettere di ricordare che, nell’ambito di quella parabola tragica e a tratti terribile, e con tutte le contraddizioni e le responsabilità del caso, i comunisti italiani furono quelli che videro giusto. Lo dimostra il fatto che ciò per cui essi – non da soli, certo – combatterono, sui monti prima, nelle piazze e nelle istituzioni poi, è sopravvissuto alla loro stessa storia. Libertà, diritti, democrazia. Un’eredità lasciataci anche grazie alle storie di milioni di donne e uomini che si identificarono in un’unica grande Storia, parte integrante di questa Nazione.
Le rivedo ancora oggi quelle storie. Ne ho conosciuti e ne conosco tanti, di iscritti al “Partito” (lo chiamano così, ovviamente, senza bisogno di specificare…). Mi capita di incontrarli nelle riunioni e nelle assemblee. L’eloquio aristocratico di coloro che ne furono dirigenti. I ragionamenti mai banali, l’“asticella” inevitabilmente spostata più in alto. Le mani, spesso callose, dei “semplici” militanti – la mitica base -, mani che prima ti cercano timidamente, poi quasi bruscamente ti afferrano per le spalle mentre ti senti dire «ora ti spiego». Lo sguardo sincero, intriso della fierezza del giusto e dell’amarezza della sconfitta. I racconti dei sacrifici di una vita dedicata ad una causa. Occhi che si velano. E all’improvviso, per te che quella storia l’hai vista dal di fuori, oppure l’hai letta solo sui libri, tutto si fa più incerto, il giudizio diventa meno saldo, il verdetto meno definitivo. Le parole scritte nei libri che ti sembravano scolpite sulla pietra – i fallimenti, le responsabilità, le contraddizioni… – si accavallano tra loro fino a diventare indecifrabili. Magari dovremmo davvero ascoltare il monito del Presidente Mao: eh sì, forse è ancora troppo presto per esprimere un giudizio su di loro, sui comunisti.
Ma poi ti viene in mente quel che si chiedeva Emanuele Macaluso, un grande di quella Storia che ci ha lasciato proprio qualche giorno fa: «è possibile riuscire a raccontare la storia del PCI senza parlare di chi in quel partito ha militato, e delle ragioni per cui, nonostante tutto, lo faceva con disinteresse e passione?». E sai che quando quegli occhi, e quelle mani, non ci saranno più, e quando sarà svanito anche il ricordo di chi ha vissuto o anche solo ascoltato quelle storie, allora sarà tardi, maledettamente tardi. Dannati comunisti: sempre così, contraddittòri fino alla fine. E anche dopo.
Paolo
D’ accordo pienamente sulla sua ricostruzione e sul contributo straordinario che i comunisti hanno dato. Detto questo non mi è chiaro il suo giudizio sulla scissione del 21. Dolorosa necessità o errore??