- Quali sono i geni utili che dalla esperienza del PCI si rintracciano nella vicenda storica italiana, contro quali vizi o derive può contribuire ancora oggi a difendere la sinistra in primo luogo ma assieme la società e la politica italiana?
- Quali sono i geni dannosi trasmessi in eredità che hanno contribuito e contribuiscono a frenare le potenzialità ed a condizionare il ruolo e l’azione della sinistra per il cambiamento del Paese?
Un valoroso comunista non pentito come Emanuele Macaluso consigliava a chi volesse capire meglio cosa sia stato il comunismo italiano di farlo attraverso le biografie delle persone che hanno popolato il suo alveo, «biografie molto ma molto diverse».
Una dimensione, suggerita da Macaluso, che aggiungiamo permette di muoversi secondo un punto di vista diametralmente opposto alla dilagante cancel culture, molto di moda nei salotti liberal di certi campus occidentali, una reazione isterica che decide con uno stile degenerativo intriso di generalizzazioni semplificanti quali processi avvenimenti personaggi della storia debbano essere cancellati con la loro rimozione e quali invece vadano protetti. La coscienza e il pensiero nazionale dovrebbero, soprattutto a Sinistra, liberarsi dai miti sopravvissuti al comunismo, nella cognizione di quanto il comunismo abbia influenzato le vicende politiche dell’Italia ma senza che tutto venga disperso per operazioni di offuscamento.
L’anomalia della storia italiana del dopoguerra e del nostro sistema politico rimane l’esistenza, fino alla caduta del muro di Berlino, del più grande partito comunista d’Occidente, che ha condizionato in modo determinante nei rapporti, nelle connessioni, nei finanziamenti, nelle parentele anche delle formazioni politiche nate da quell’esperienza e che a quella tradizione si richiamano: Pds, Ds e parte del Pd.
Questa è la linea rossa che ha attraversato la vicenda politica, sociale e culturale dell’Italia. Non è questa l’occasione ma la tragedia degli equivoci che tanto ha pesato sull’evoluzione della democrazia e della sinistra italiana andrebbe descritta e analizzata ovviamente, per uscire da un certo provincialismo interpretativo italiano anche in chiave geopolitica pre, durante e post Guerra Fredda. Si collocherebbe più adeguatamente l’intera storia dei Pci e la sua indisposizione a perseguire “l’interessa nazionale” dentro i disequilibri dinamici italiani costretti a convivere nel globalismo internazionalista sovietico e nelle contraddizioni universalistiche dell’impero statunitense.
Mi si vorrà perdonare la provocazione che cela al suo interno il paradosso: geni utili?
Lo “stalinismo” come pratica operativa del marxismo leninismo: la sua organizzazione, la sua strategia, i suoi criteri di reclutamento e di socializzazione, di comunicazione e di manipolazione. Una commistione mistica di soft e hard power nel senso di una praticità istintiva dell’establishment comunista, riadattata al contesto della società italiane e alla sua struttura sociale e di potere. Lo stalinismo organizzativo insito nel suo modello di partito e indossato nei tic dei sui militanti, dei sui quadri nei dirigenti acquisiva consenso nelle grandi masse e rappresenta qualcosa che non può essere ignorato sia in sede storica che in sede politica.
Una leadership di minoranze creative composte da un’élite di leader coesi tra loro che ammette su criteri precisi di professionismo politico una grande mobilità, dimostrata sul campo, ai militanti, verso l’alto e verso le posizioni apicali del partito. Una classe politica che sapeva agire con ostentata indipendenza e libertà di modi e atteggiamenti ed un inossidabile omogeneità in grado di selezionare una classe politico-amministrativa che garantisse le direttive incontestabili del centralismo democratico. Virtù non riscontrabile con la stessa fedeltà (comunista) nelle classi dirigenti degli altri partiti. Meriterebbe riflettere con pazienza e metodo (come per esempio quello di Carroll Quigley) su un tabù mai davvero sviscerato fino in fondo dagli studiosi: il ruolo e il funzionamento dei centri di poteri del Pci. nelle sue svolte e nella sua capacità di occupare la scena politica. Si svelerebbero così le sue configurazione di “famiglia allargata di potere” di governo e sottogoverno.
Configurazioni strutturate per network e nella costante presenza nelle cariche amministrative dello Stato, delle regioni degli enti locali, nelle istituzioni culturali, nelle cooperative, nella public diplomacy dentro il capitalismo di Stato e privato ( la Fiat ma non solo), negli istituti finanziari e assicurativi, nelle scuole, nelle università nelle fondazioni nei centri di ricerca nell’industria culturale (media editoria cinema e tv, associazionismo, potrei continuare), nella magistratura. Un modus operandi capace di riplasmare a seconda delle opportunità e delle circostanze la psicologia sociale non solo delle élite, ma anche di interi conglomerati sociali, gruppi ceti e classi: una nuova tribù in nome del proletariato e, all’occorrenza, anche contro il proletariato! I comunisti italiani orgogliosi della loro diversità, in nome della quale si sentono autorizzati ad agire come «attori morali».
Il Pci sapeva concretizzare efficaci procedure di perpetuazione, di cooptazione e di formazione che sceglievano selezionavano, indirizzavano, filtravano e scartavano i canali di reclutamento, pescando i candidati adeguati in quelle che, parafrasando Geminello Alvi, si configurava come una “aristocrazia eticista” impegnata in una lotta competitiva per il mantenimento dello status e della sua sedicente cifra di distinzione.
Nel conformismo attuale, nell’inerzia che tutto è irreversibile e social paradossalmente il far politica del Pci, potrebbe, ispirare un pratica, di argine alla marginalizzazione degenerativa del Politico post comunista che ha preferito sbarazzarsi, approfittando di garanzie e appoggi internazionali della sua storia con una velocità ipersonica anziché rivendicarla nelle sue luci e ombre.
Come geni dannosi il tentativo del PCI di supera il comunismo non approdando alla socialdemocrazia e al riformismo bensì al giustizialismo che incarna l’ambizione messianica e distopica del leninismo e che sacrifica la garanzia dei diritti individuali nella doppiezza, nella disinformazione sistematica, nell’emarginazione dei “dissidenti”, nella denigrazione personale degli avversari politici.
Come rivendica Luciano Pellicani il marxismo leninsmo, anche nella sua filiale italiana scagliava, all’ombra dello sharp power sovietico la contestazione globale della civiltà occidentale, di cui nulla si sottrasse a una condanna senza appello: né la scienza, né la tecnologia, né lo stato di diritto, né la democrazia parlamentare, né la socialdemocrazia, né, tanto meno, l’economia di mercato. Il risultato è stata un clima ultra ideologico nel quale non c’era spazio alcuno per il riformismo e per il revisionismo.
Nell’Italia repubblicana pochi a sinistra sfidarono apertamente il massimalismo imperante nei partiti e nei sindacati, nelle università e nei mass media: i socialdemocratici di Saragat e Cariglia, i radicali di Pannella e i socialisti mossi e rianimati da un dark knight epico come Craxi. Per andare boots on ground, cioè verso un confronto diretto sul terreno dell’ortodossia marxista leninista, non bastavano dissensi ideologici o discussioni colte ma serviva,come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, che «qualcuno imbracciasse il fucile e cominciasse a sparare». Craxi fece proprio questo: «sparò con freddezza mirando al PCI».
Il Pci ribadiva che non intendeva rinunciare al suo legame organico con l’Unione sovietica e con tutto ciò che essa simbolizzava. E lo faceva con il sostegno di una buona parte degli intellòs che amava definirsi progressista, mentre, in realtà, altro non era che l’erede storica della tradizione giacobina, radicalmente ostile alla libertà dei moderni e, come tale, profondamente e irrimediabilmente reazionaria. nel tentativo di annullare, in nome di un presunto bene assoluto, lo spirituale e il temporale e stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e annientare il pensiero critico e la dissidenza.
Intellettuali, sia cattolici sia laicisti, che trovarono nel Partito comunista la loro comfort zone mantenendo la differenza dal partito. I sedicenti indipendenti di sinistra accettarono il valore comunista di assorbire le diversità politiche nella propria linea mantenendole tali, ma subordinandole al riconoscimento dell’egemonia. E l’adesione culturale politica testimoniava, argomenta sempre Pellicani, più fortemente l’influenza comunista sull’opinione pubblica che non la stessa militanza
Per Berlinguer l’approdo socialdemocratico e riformista era una sorta di peccato mortale e quando dichiarava di costruire il socialismo all’ombra della Nato, enunciato funzionale per salvare e non superare la prospettiva leninista, il Pci manteneva il doppio strato dei finanziamenti sovietici e dell’apparato paramilitare clandestino: una struttura insurrezionale da usare in caso di invasione sovietica come supporto agli invasori. E dava spazio all’azione di esponenti del Kgb in Italia. L’installazione degli euromissili Nato venne ferocemente osteggiata nello parola d’ordine “meglio rossi che morti”. Qualcuno ha dimostrato che era possibile non essere né rossi né morti, se la libertà nazionale viene difesa con la necessaria fermezza strategica di Bettino Craxi.
L’entità e i modi di quest’influenza sono stati solo in parte evidenziati dalla ricerca storica ma ancor poco recepiti dal senso comune, ma stanno nel portato di “una linea astratta”, perché dettata da istanze di potere piuttosto che della lotta di classe.
Un Pci che comunque andava a guadagnare posizioni e reputazione democratica all’interno della profonda interazione tra Stato, burocrazia pubblica, grande capitalismo, gruppi sociali o classi come l’ineffabile ceto medio riflessivo.
Il PCI, ha trasmesso geneticamente paradigmi e linee d’azione ai suoi eredi diretti: l’uso strumentale del pacifismo nella propaganda antiamericana e antioccidentale, per esempio, così come la demonizzazione dell’avversario o dell’antiberlusconismo, divenuto versione aggiornata dell’antifascismo e dell’anticapitalismo, come strumenti di lotta politica.
Di qui l’elaborazione della questione morale e della “diversità” che è il presupposto dell’operazione del 1992-1994.
Il nesso tra questione morale e diversità comunista, fece rientrare nella discussione politica categorie non politiche, universali, antropologiche e produsse un progressivo allontanamento dalle dinamiche politico-parlamentari chiudendo una forza elettorale così significativa in uno spazio poco utile al confronto e alla ricerca di soluzioni.
Secondo Piero Craveri, la questione morale rappresenta la comparsa dell’antipolitica «nella scena politica italiana». La critica di Berlinguer si scagliava soprattutto contro i partiti e sembrava anticipare discorsi che diventeranno senso comune dopo Tangentopoli. L’antipolitica come una «patologia eversiva» che Berlinguer e i suoi compagni lanciavano come extraterrestri nel sistema politico italiano, nel quale erano ancora condizionati dai finanziamenti sovietici.
La forza egemone sul terreno del controllo degli spazi ideologico-culturali, cioè il Pci-Pds, ha avuto gli strumenti insieme mediatici e operativi per liquidare le altre (la Dc, il Psi, i partiti laici) come è avvenuto durante Tangentopoli.
Per Craxi una parte dei post PCI aveva in mente qualcosa che non gli poteva piacere perché era quello che i suoi nemici di sempre aveva sempre cercato: niente più comunismo, niente socialismo, ma solo un distinto democraticismo, un politicamente corretto antipolitico e conformista all’unico scopo di essere legittimati a entrare nel governo: una nuova egemonia post moderna post ideologica, liquida solo apparentemente buonista e compassionevole.
Per guadagnarsi un ruolo i dirigenti del post Pci pagarono un ticket cercarono un modello non nella tradizione socialista e socialdemocratica riformista europea bensì nel partito democratico americano, rincorrendo ideali altissimi e riscatto sociale di giustizia fuori sincrono della realtà e dei soggetti che la storia l’hanno abitata prima dell’ideologia comunista e dopo che la grande illusione marxista leninista aveva dimostrato la sua cifra totalitaria.
Lascia un commento