Nel febbraio del 1986 Ennio Di Nolfo, uno degli storici più acuti che l’Italia abbia avuto, purtroppo scomparso da alcuni anni, pubblicò con Mondadori un libro bello e originale, lasciando da parte per una volta i suoi studi preferiti, quelli di politica internazionale. Il libro aveva per titolo Le paure e le speranze degli italiani (1943-1953) e approfondiva il vissuto degli italiani in quella drammatica fase storica che prese avvio dalla sconfitta militare e dal crollo delle strutture dello Stato per giungere alla faticosa fase della ricostruzione, che non fu solo economica ma che comportò una nuova concezione della vita civile e dell’organizzazione statuale, che la nuova Costituzione repubblicana ebbe il compito di rappresentare. Il lavoro di Di Nolfo non aveva niente di psicologistico, era saldamente ancorato alle fonti storiche, ma certo non ignorava il contributo che le scienze umane avevano dato, nel dopoguerra, alla ricerca storica.
L’opera resta ancora oggi un valido strumento di conoscenza storica e un prezioso stimolo alla riflessione anche nei confronti del nostro tempo. Possiamo, cioè, cercare di comprendere il tempo che stiamo vivendo in termini di contrasto e di alternarsi di paure e di speranze? Certamente sì, perché paura e speranza sono sentimenti profondi che l’uomo ha vissuto in ogni tempo e quindi vive anche nel nostro. Se ci avviciniamo a come oggi viviamo questi sentimenti, può sembrare scontato che in questo momento le paure soverchino le speranze; sarebbe bene tuttavia distinguere tra timori e paure. Il termine timore possiede, rispetto a paura, un elemento di razionalità: si ha timore di qualcosa di cui si è valutato la pericolosità ma ciò non esclude, anzi implica, che si prendano le misure necessarie per combatterlo e renderlo innocuo. La paura, viceversa, ha in sé qualcosa di irrazionale, prelude al panico, coinvolge sentimenti così profondi che non sembrano superabili con le armi della razionalità e in particolare della scienza.
Naturalmente il primo riferimento che viene in mente è la pandemia da Covid-19, nei confronti della quale il timore è legittimo e anzi doveroso perché costituisce la base per la spinta alla ricerca e all’uso dei vaccini atti a prevenire il contagio, oltre che all’assunzione di stili di vita che servano a limitare la diffusione del virus. Ma quello che vediamo intorno a noi è spesso non questo legittimo timore, ma proprio quella paura che paralizza e che stordisce e che spesso assume la forma della paura non soltanto del virus ma degli stessi strumenti che servono a combatterlo, i vaccini. Anche in questo caso occorre distinguere: c’è una paura che nasce da un sentimento profondo, simile a quella del buio o dell’ignoto, una paura che esprime l’istintivo rifiuto di ogni intervento sul proprio corpo, anche quando questo è necessario e serve a ristabilire la salute. E’ un sentimento che va compreso e superato attraverso gli strumenti della razionalità e della conoscenza. Ma c’è anche un altro tipo di paura, quella che viene diffusa consapevolmente, sulla base di ideologie contorte e distorte, che purtroppo il nostro tempo sembra non aver superato ma che al contrario sembrano trovare nuova linfa proprio nel momento in cui la scienza, e n particolare la ricerca medica, ha raggiunto livelli altissimi.
Questa contraddizione ci fa capire che alla base di questa paura c’è qualcosa che va oltre il problema della pandemia e degli strumenti per combatterla e per superarla. Proprio la diffusione delle teorie negazioniste fa capire che esiste oggi nel mondo – e l’Italia non fa eccezione, anzi – una diffusa sfiducia nella capacità delle classi dirigenti di governare il tempo che viviamo e quindi anche quel particolare fenomeno che è la pandemia. Naturalmente questa sfiducia non è diffusa uniformemente e non va confusa con quel certo grado di distacco dalla politica che caratterizza da sempre le società democratiche. La pandemia – ma già prima la spinta verso la globalizzazione – hanno fatto riemergere sentimenti che già in altri momenti si erano manifestati, come la persuasione che l’incapacità a controllare la complessità della società contemporanea – e quindi anche fenomeni come la pandemia – non dipenda tanto dalla complessità stessa ma da oscure trame complottistiche, dalla volontà e dagli interessi di imprecisati gruppi di potere che di fatto controllerebbero la nostra vita al di là dell’apparenza delle forme democratiche.
Questo atteggiamento appare il frutto del permanere di un approccio ideologico alla realtà, che è stato diffuso per decenni e che adesso si ritorce contro chi l’ha usato come strumento di conoscenza ma soprattutto di controllo. La nostra cultura non è abituata a controllare la validità delle opinioni e delle informazioni per mezzo della verifica empirica. A partire dagli stessi intellettuali si è convinti che le idee (magari sbagliate) si combattono con altre idee (magari anch’esse sbagliate) e con difficoltà si accetta di sottoporre le idee alla verifica storica e scientifica. Non c’è da meravigliarsi che questo habitus ideologico degli intellettuali si trasformi, in altri strati della società, in credenze di tipo complottistico.
E le speranze? Di fronte a paure così diffuse sembrerebbe che non ci sia spazio per la speranza. Non è così e ciò apparirebbe chiaro se si riflettesse intorno ad alcuni aspetti. La pandemia sarà sconfitta: sarà una lotta lunga e dura, piena di contraddizioni perché i vaccini non saranno diffusi con la stessa velocità in ogni parte del pianeta, ma alla fine sarà sconfitta e ciò rafforzerà la fiducia nel potere della ricerca scientifica. La globalizzazione è un fenomeno irreversibile ma non comporta inevitabilmente la perdita del controllo sulle nostre vite se i sistemi democratici sapranno reggere alla prova, elaborando forme di governo basate sulla volontà popolare e sul rispetto dei diritti umani in grado di superare le secche di un parlamentarismo ormai sterile. Soprattutto – e questo sarebbe in gran parte il compito degli intellettuali – se si diffonderà l’abitudine a un rapporto con la realtà non ideologico, basato sulla vicinanza ai fatti e sulla verifica empirica delle opinioni. I gruppi di potere continueranno ad esistere perché questa è la caratteristica di una società aperta, dove deve essere affermata l’uguaglianza giuridica e delle opportunità, ma non il livellamento economico. Ma non è scontato che i gruppi di potere sfuggano necessariamente alla conoscenza e quindi al controllo dell’opinione pubblica. E’ più probabile che questo avvenga in società opache come la Cina e la Russia che nelle società aperte dell’Occidente.
(Pubblicato in Idee il 07/01/2021 e ripreso con il consenso dell’autore)
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