Quanti sanno che esiste un premio Nobel (il Global Teacher Prize) per il migliore insegnante dell’anno, un ricco premio da un milione di dollari, offerto dalla Varkey Foundation?
Non è certamente una di quelle notizie che trovano spazio sulle prime pagine dei giornali, soprattutto in Italia, dove il tema della scuola negli ultimi venti/trent’anni è stato posto in fondo alla lista delle priorità nazionali. Basta entrare in un qualsiasi edificio scolastico per rendersene conto, e si capisce subito che investimenti (non) sono stati fatti: sul piano dell’edilizia, delle dotazioni tecnologiche, delle strutture sportive, delle biblioteche. Per non parlare poi dei nostri insegnanti, che sono tra i più anziani e contemporaneamente tra i meno pagati all’interno della UE.
Eppure tutti gli analisti continuano a ricordarci che crescono di più quei Paesi che più investono in formazione ed istruzione.
Ma in Italia, a partire dalla fine degli anni Settanta, si determinò una particolare e nefasta congiuntura, per cui i governi iniziarono a utilizzare la scuola come valvola di sfogo per la crescente disoccupazione e, con la complicità dei sindacati della scuola, l’insegnamento perse rapidamente valore: gli insegnanti diventarono dei semplici impiegati statali al pari di tutti gli altri, e a loro non si chiese più di essere un ceto intellettuale con un compito da svolgere di fondamentale importanza (“paideia”, l’educazione dei giovani). In seguito a questa sorta di demansionamento culturale, i loro stipendi vennero generalizzati e ridotti alla mera sopravvivenza della categoria.
Le responsabilità di questa situazione che è andata solo peggiorando nel corso degli ultimi anni – va detto – non sono state solo dei governi succedutisi fino ad oggi e dei sindacati confederali: una parte consistente di responsabilità l’ha avuta anche l’opinione pubblica, che ha accettato tranquillamente la trasformazione della scuola e l’abbassamento dei suoi standard qualitativi. Tutto sommato, alla maggioranza delle famiglie italiane non dispiaceva che ai loro figli non venisse più chiesto di studiare come si faceva un tempo; che alla fine dell’anno la promozione fosse quasi garantita per tutti; e che gli esami di riparazione a settembre e gli esami di maturità fossero diventati una mera formalità.
E’ così che siamo arrivati alla realtà attuale del sistema educativo, dove gli insegnanti bravi ( ce ne sono tanti) vengono trattati allo stesso modo degli incompetenti e dei fannulloni, i quali per altro sono inamovibili (grazie al potere dei sindacati nella scuola).
Ma da quando le scuole sono chiuse a causa dell’emergenza sanitaria, miracolosamente, il tema della scuola è ritornato al centro delle preoccupazioni del governo, delle famiglie e dei media. Il Covid non solo ha rivelato agli italiani la fragilità del sistema sanitario pubblico, devastato da quando le Regioni hanno preso in carico la sanità; ha anche dimostrato che, senza il normale funzionamento delle scuole, la vita dei giovani e dei loro genitori è praticamente sconvolta.
La parola d’ordine è, dunque, diventata: riaprire le scuole il prima possibile. Perché tutti vogliono, giustamente, che le scuole riprendano a svolgere la didattica in presenza e, se non è stato possibile farlo già a dicembre, si dà per certa la data del 7 gennaio del nuovo anno.
Siamo sicuri che tutta questa attenzione verso la scuola, di cui si parla persino nei dibattiti televisivi e sui grandi quotidiani che in passato l’avevano sempre ignorata, durerà anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria? E, soprattutto, si deciderà di fare consistenti investimenti per elevare la qualità del sistema educativo, quando si tornerà alla vita normale? oppure la scuola scenderà nuovamente all’ultimo posto nella lista delle priorità nazionali?
Insomma: le scuole vanno riaperte perché davvero si crede nella loro missione, o semplicemente perché i ragazzi a casa diventano un problema organizzativo per i genitori e quindi per il mondo del lavoro?
Sinceramente non so rispondere a queste domande con certezza, ma l’impressione è che tutto questo gran parlare e scrivere sulla scuola non sia l’indizio di un cambiamento generale di atteggiamento e di una autentica consapevolezza del ruolo fondamentale che l’educazione dovrebbe avere all’interno della società.
A proposito del Teacher Global Prize, quest’anno il premio l’ha vinto uno straordinario maestro indiano, Ranjit Disale, che è riuscito a trasformare un edificio fatiscente in un luogo di apprendimento e di inclusione, appassionando alla cultura bambine e bambini poverissimi, alcuni dei quali sono poi arrivati a laurearsi.
Quando anche in Italia si premieranno i migliori insegnanti – non necessariamente con un milione di dollari -, quello sarà il segnale che la scuola sarà tornata ad essere veramente importante.
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