Ci sono momenti, nella storia, che si imprimono in modo indelebile nella memoria collettiva come punti di svolta dai quali non è più possibile tornare indietro: quel 22 Novembre 1963, quando fu ucciso J. F. Kennedy, o quell’11 Settembre 2001, quando furono abbattute le Torri Gemelle, o ancora, forse, questo 25 Novembre 2020, con la morte di Diego Armando Maradona. Sono momenti particolari, speciali nella loro tragicità. Perché prima di fissarsi nel ricordo di tutti, si stampano innanzitutto in quello di ciascuna persona che abbia avuto l’avventura di viverli direttamente, e perché – nell’istante in cui accadono – se ne sente subito la grandezza e l’enormità, come una scarica elettrica di emozioni. Non c’è bisogno che l’accaduto si istituzionalizzi e si mitoligizzi. Già il suo compiersi rivela l’istituzione e il mito, e li consegna irrimediabilmente ad un passato che per la prima volta acquista un senso (o almeno una sua parte rivelata) per chi lo guarda, mentre già cominci a perdersi nella foschia del tempo.
Quella notte dell’8 Dicembre del 1980 – la notte in cui John Lennon fu assassinato – fu uno di quei momenti. Se si chiede a chi avesse avuto allora qualche anno in più dell’infanzia se rammenti qualcosa di quella notte e del mattino dopo, chiunque, ne sono sicuro, avrebbe di che rispondere: i più piccoli della tristezza o delle lacrime dei genitori cresciuti al suono dei Beatles; le ragazze e i ragazzi del dolore sordo, malinconico,, in fondo inspiegabile, per la fine di un’epoca appena sfiorata ma la cui eco era ancora forte a profumare l’aria; i più maturi o anziani per la consapevolezza, tipica dell’avanzamento dell’età, che un pezzo della loro vita si stava accommiatando, e con lei sensazioni, emozioni, immagini, ricordi legati ad affetti, speranze, amori, delusioni.
La notte in cui John Lennon morì, a morire fu il sogno. Fu questa la parola – the dream is over, il verso di una sua canzone – che quella mattina, salendo le scale del Liceo al primo piano, lessi sopra uno striscione colorato che i miei compagni di corso avevano già appoggiato alla parete. Un paio d’ore prima, alle 6, mi ero svegliato e, come ogni volta, allungo le mani verso una di quelle lampade da tavolo anni Settanta, colorata a forma cilindrica, la sua base rossa una radiolina. L’accedo e, ancora nel dormiveglia, gli occhi ancora chiusi, sento quelle parole, “John Lennon, l’ex Beatles, è stato ucciso stanotte da uno squilibrato con quattro colpi di pistola davanti alla sua residenza”. Non mi muovo nemmeno. Comincio silenziosamente piangere, la faccia sotto le coperte, non sapendo se mio fratello, nel letto accanto al mio, stesse ancora dormendo o no. Mia madre che mi parla con la dolce gravità con le madri danno la notizia di un lutto in famiglia. La speranza che se ne sia andato ma sia stato solo ferito, anche se in modo grave, mi andava bene. Ma no, il sogno era finito, erano finite le scritte sul diario dei nomi dei quattro di Liverpool, quello di John sempre il primo, poi quello di Paul, di George e di Ringo. Erano finite le gite scolastiche in cui a un certo punto, confidando nella mia capacità di persuasione, sul pullman, convincevo i miei compagni a mettere una cassetta dei Beatles, e stavo bene quando li vedevo tutti assorti a cantarne le parole. Ero allora uno di quei ragazzi nati qualche milligrammo di tempo prima dell’epoca dei Beatles, e ciò che moriva non era però solo quel profumo che imperlava l’aria di quei miei anni e che colorava il cielo di un blue talmente bello – incastonato nelle cornici disegnate dalle volte del chiostro in cui giocavo coi miei compagni – che da allora non sono più riuscito a rivederlo. No. Moriva soprattutto la speranza che quell’epoca sfiorata non fosse davvero terminata e che – se i quattro si fossero rimessi insieme – sarebbe stata anche completamente mia.
Sono queste le sensazioni che mi fanno oggi capire – e me lo fanno capire da sociologo – quanto certi eventi – nell’istante stesso del loro accadere – siano già mitologia ma già anche irrimediabilmente passato, come la Nottola di Minerva che si alza in volo solo sul far della sera, nell’oscurità. La notte in cui John Lennon morì, morì un’intera stagione sociale e culturale. In quelle stesse ore, il 4 Novembre del 1980, Ronald Reagan veniva eletto nuovo Presidente degli Stati Uniti, e con lui finiva l’Era dell’Acquario e cominciava quella neoliberista e del capitalismo edonista. Un intero universo di senso – che dal secondo Dopoguerra si era formato a dare parole e categorie di significato ancora condivisi con cui dar forma ai propri impulsi, a trasformarli in emozioni capaci di dialogare, anche lottando, con i propri avversari – si sgretolava velocemente, senza però lasciare spazio a niente di simile, senza produrre cioè alcuna nuova grammatica valoriale e dei sentimenti dotata di una coerenza in qualche modo paragonabile a quella dello scenario simbolico precedente. Da quel momento inizia ad affermarsi si un nuovo stilema culturale, ma il suo paradigma non è più immediatamente collettivo e socialmente organizzabile. L’accento che pone è ora sull’individuo ma, come un pendolo, esso batte il tempo ora sull’autonomia e sul potere di autodeterminazione dei soggetti, ora però anche sulla loro impietosa imputazione personale nel caso di un loro fallimento e di un loro scivolamento in una delle tante condizioni di bisogno e di fragilità. Il metronomo sincopa insomma adesso – in un alternarsi senza sosta – ora l’ideale della propria individualità – ma anche del riconoscimento e del rispetto dell’individualità altrui – ora quello dell’individualismo, ovvero della prioritaria attenzione a sé stessi e ai propri interessi, e della tendenziale accettazione degli altri ma a patto che questi siano soprattutto utili strumenti per il raggiungimento del proprio benessere e per il conseguimento dei propri obiettivi. In questa lacerazione che la nuova egemonia culturale impone fra due modi di essere in fondo però contraddittori e irricomponibili – la “relazione”, come azione riferita all’altro (“re-lata”, ovvero “portata verso” l’altro, pertanto problematizzato e considerato nel suo punto di vista), e la “comunicazione”, come “azione condotta-in-comune”, tecnicamente coordinata con quella dell’altro, cui si richiede di integrarsi come deve fare un ingranaggio più o meno meccanicamente ben combaciante) – ciò che non di meno rischia di esplodere è proprio la soggettività delle persone, è proprio quell’attribuzione di senso a sé stessi, al proprio mondo (fatto di cose e di creature viventi: esseri umani, piante, animali, ecosistemi) e al proprio rapporto con esso che disegna a ben vedere – sul piano della vita – la partitura all’interno della quale le note acquistano rilevanza come melodia e armonia insieme.
Tutto ciò lo si vede – credo – innanzitutto nella musica. La notte in cui morì John Lennon – che fu la notte in cui morirono i Beatles – fu la notte, come pochi giorni dopo titolò il Times in copertina, in cui morì la musica. Gli Ottanta sono stati un decennio di grandi gruppi e artisti. Indiscutibilmente. Ma non di meno, piano piano, da quel momento, il linguaggio musicale – ma anche quello lirico, cioè quello dei testi delle canzoni, e quello coreografico: quello insomma dei videoclip o quello della danza, che insieme alla musica balla e si compenetra – è andato destrutturandosi, liofilizzandosi, affilandosi e isolandosi. Sembra oggi sempre più spesso di “sentire”, trasposte in suoni, quelle linee asciutte, affilate, sole e distaccate che segnano un quadro di Hopper. Il ballo – eccezion fatta per quello tradizionale – non è più qualcosa che si fa in coppia, esposto al tatto e all’olfatto, e alla vista, da vicino, focalizzata, gli occhi negli occhi, e anche il loro riprender fiato distogliendosi un attimo per tornare a dialogare. Sono movimenti a volte bellissimi e impressionanti, ma a distanza e, di gran vigore fisico, coordinati ma ego-centrati. E le parole dei testi, anche le più impegnate: sono spesso intime, introverse, talvolta di una semplicità assoluta, banali direi, poco ricercate, ma significative alla luce dell’interiorità ineffabile di chi le pronuncia. Non si di significati collettivi, che anzi rifuggono, ma mirano piuttosto a ricercare un riverbero nell’esperienza altrettanto privata dell’ascoltatore, ma percepito più come singolo, o come gruppo sottoculturale, che come pubblico.
La notte i cui morì John Lennon morirono infine le emozioni. È forte, lo so. E detta così – in un’epoca, come l’attuale, che celebra l’emotività, la spontaneità, l’autenticità dei sentimenti come le più alte manifestazioni di libertà e di autodeterminazione dai cliché e dagli stereotipi – sembra un controsenso, ed anzi qualcosa di completamente sbagliato. Ma lasciatemi spiegare. Quella in cu viviamo non è l’epoca delle emozioni ma quella delle pulsioni, dei sommovimenti d’animo, delle “passioni” ma nel senso con cui gli antichi Greci, Aristotele per primo, usavano questa parola, ovvero nella coniugazione passiva della forma verbale di derivazione: “patire”, “soffrire”, “subire” una sensazione interiore. Le emozioni – per come siamo solito oggi intenderle – sono invece “addomesticamenti” coscienti e consapevoli degli impulsi energetici che promanano dal nostro interno, dal nostro mondo psico-fisico interiore. Fame, sete, paura, rabbia, odio, vergogna, pudore, voglia di sesso, simpatia, antipatia, empatia, compassione e quant’altro – in sé e per sé – sono forze impersonali, cieche, scariche di energia che – se le esperissimo in quanto tali – ripiegherebbero su sé stesse per scagliarsi verso l’altro ma a distruggerlo al fine di placarsi. Se non lo fanno – anzi, quando non o fanno – è perché sono inestricabilmente dotate di senso. Ma questa “significazione” è possibile solo se primo, sono disponibili quadri culturali – ovvero categorie cognitive, etiche e di gusto – con cui si sia in grado di plasmare e di dar forma a quelle forze vitali, e secondo, a condizione che quei frame simbolici siano sentiti avere una qualche coerenza interna, siano cioè collettivamente condivisi, meglio sarebbe dire: com-partecipate (riconosco rilevanza a qualcosa, dunque ne riconosco la legittimità, pur non essendo con essa d’accordo, a patto cioè di comparteciparvi, non di adottarla come giusta). Oggi disponiamo indubbiamente di una “cassetta degli attrezzi culturale” ma è sempre più idiografica, diremmo quasi “idiolettica”. La sua ri-produzione non è più assicurata da comunità come il “popolo”, o come la “classe sociale” tradizionalmente intesa. È invece ormai sempre più demandata ai soggetti, ai singoli individui, alla loro giusta rivendicazione del diritto di scegliere per sé stessi propri canoni di giudizio morale ed estetico ma anche – il costo da pagare! – alla loro piena responsabilità in caso di fallimento o di errore. Di fronte a tali poste in gioco, il rischio di deragliamento è enorme. E quando quel lavoro di attribuzione personale di senso vacilla e, nel peggiore dei casi, naufraga, ecco che l’emotività si trasfigura, e si riapprossima a quell’inquietante e dolorosa, solitaria, impulsività. È l’amoralità di certi comportamenti apparentemente privi della minima considerazione sulle conseguenze delle proprie scelte (chi stupra, bullizza o uccide dicendo poi che non sapeva quello che faceva, che l’ha fatto per noia o che l’ha vissuto come un gioco), è la facilità con cui ad esempio i più giovani – che conosco a lezione o con cui parlo – alternano ora sicurezza, ora crisi di panico per l’avvitarsi di fronte a compiti che impareranno col tempo, certo, quanto insignificanti siano rispetto ad altri graffi che la vita lascerà sulle loro ossa.
La notte in cui morì John Lennon. Quella notte John Lennon morì per mano di questo futuro, che aveva da tempo intuito e che aveva provato invano di sfuggire (i cinque anni, dal ’75 all’’80, durante i quali si era ritirato a vita privata); un giovane uomo delle Hawaii che lo adorava e ne era un fan sfegatato; la celeberrima foto, poche ore prima dell’assassinio, in cui Lennon gli autografa il disco, e lui accanto, incredulo; “… Mister Lennon – sembra abbia detto dopo averlo avuto finalmente di spalle, alle 22.50 di quel 8 Dicembre 1980 – you are about to make history…”
Sbagliavi, idiota: era la Storia che si compiva.
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