È comprensibile lo scoramento che Carlo Calenda ha manifestato nel suo recente video-intervento “Il grande Pantano” . Quasi un grido disperato, una voce che sembra consapevole di essere destinata a rimanere nel deserto.
L’europarlamentare e leader di Azione è sbigottito dall’immobilità che la situazione politica italiana, anche davanti a questa crisi pandemica ed economica senza precedenti, dimostra in tutta la sua evidenza.
Calenda inizia ammettendo con sincerità la propria stanchezza, non vedendo schiodarsi la sua creatura politica, nonostante un indubbio attivismo, da percentuali sempre “borderline” rispetto a sbarramenti e soglie elettorali.
Ma come, afferma il leader di Azione, “la crisi Covid mette in ginocchio il funzionamento dello Stato italiano, non riusciamo nemmeno a spendere i soldi che abbiamo ottenuto indebitandoci” e gli elettori rimangono del tutto indifferenti, gli orientamenti di voto non cambiano?
Gli italiani, è il suo amaro giudizio, non traggono alcuna conseguenza politica dall’efficacia della gestione della crisi o dalla capacità di proposta dell’opposizione.
E rincara la dose. Se sai le cose, se dimostri competenza quasi si infastidiscono, ti guardano come se fossi il prototipo dell’antipatico per antonomasia, il secchione, il primo della classe.
E conclude, sconsolato, “non è un problema politico ma di semplice mancanza di comprensione.” “Gli italiani non votano sulla base della credibilità dei programmi di Governo o opposizione”.
I cittadini, è questo il punto centrale dell’intervento, non seguono le leggi della razionalità quando esprimono le loro preferenze politiche.
Calenda, premetto, dice cose ragionevoli. Richiamando Sartre però si potrebbe dire che ha ragione nella sua maniera di avere torto, o che ha torto nella sua maniera di avere ragione.
Come non essere d’accordo infatti sulla sua analisi. È proprio così. Le scelte politiche non sono dettate dalla “razionalità”. Ma, senza incolpare il destino cinico e baro o, peggio, i cittadini, bisognerebbe trarne qualche conclusione più realista, più pragmatica sulle modalità di comportamento degli elettori. Non da ora, ma da sempre.
Per farlo si deve superare però quella sindrome da giapponese asserragliato nel proprio bunker vetero-illuminista che attanaglia non tanto e solo Calenda ma gran parte del fronte progressista, nel nostro Paese in particolare.
Occorrerebbe cioè pensare che la soluzione non è cambiare gli elettori perché non sono abbastanza intelligenti e/o abbastanza informati, perché non leggono i programmi dei partiti o ne ignorano l’esistenza.
Bisognerebbe piuttosto cercare di cambiare modalità di approccio con i cittadini. Basandosi su una maggiore aderenza alla naturalezza dei comportamenti umani, e quindi anche politici.
Suggerisco quattro elementi per un nuovo approccio alla costruzione del consenso da parte dei progressisti:
- fare pace con le emozioni;
- unire competenza e rappresentanza;
- parlare a chi non pensa alla politica;
- adottare un modello di politica relazionale ed esperienzale.
Che tra le modalità di persuasione, di costruzione del consenso, oltre che all’argomentazione logica razionale basata sui fatti, il logos, si debba tenere in considerazione il campo delle emozioni, il pathos, lo aveva già chiaro Aristotele. E già Quintiliano sapeva che un discorso persuasivo, accanto al docere et probare – convincere con i fatti; deve contenere il delectare cioè catturare l’attenzione con un discorso vivace, e il movere cioè commuovere, emozionare il pubblico affinché aderisca alla tesi dell’oratore.
Ma sono le più recenti scoperte delle scienze cognitive ad aver dimostrato l’illusorietà della visione illuministica, propria in particolare dei progressisti in tutto il mondo, per i quali esiste una realtà oggettiva e un confronto politico basato solo sulla ragione, sulle scelte razionali, consce, logiche, universali, che porta altrettanto oggettivamente alla comprensione e al prevalere dell’unica e sola verità fattuale da parte dei cittadini.
Semplicemente, non funzioniamo così.
George Lakoff ha indagato a lungo il rapporto tra pensiero politico e scienza della mente. E ci dice che “noi possiamo sempre e solo parlare di immagini della realtà e non della realtà”. Che non esiste dicotomia tra ragione ed emozione (basti pensare a quanto ha dimostrato il neuroscienziato Damasio circa quelle persone che hanno subito danni cerebrali tali da renderle incapaci di provare emozione o di coglierla negli altri e che non riescono, proprio a causa di questo, a comportarsi secondo i canoni della razionalità).
Il principale campo di battaglia politico, dice Lakoff, “è il cervello e in particolare, il funzionamento del cervello al di sotto del livello di coscienza.” Del resto come potrebbe non essere così considerando che “il 98% dell’attività mentale ha luogo senza che ne siamo consapevoli”.
È quasi paradossale che rispetto a dati di fatto sia il fronte progressista ad avere un atteggiamento pre-scientifico. Occorre riconciliarsi con la scienza e comprendere che il pensiero inconscio e le emozioni sono naturalmente legate anche alle scelte politiche degli elettori. Le emozioni non possono essere tralasciate in politica, se non altro perché sono incorporate alla ragione.
E quindi, rispetto al loro uso, invece di gridare sempre e solo alla “manipolazione” delle coscienze, lasciando libero campo a chi alimenta solo emozioni e sentimenti negativi, di rabbia e odio, è necessario costruire la propria narrazione, come del resto hanno fatto i grandi leader progressisti, da Kennedy a M.L. King a Obama, con la forza delle emozioni che suscitano speranza e scopo condiviso. Che alimentano la “chimica positiva” dei nostri cervelli. E che non sono, appunto, delle tecniche sofisticate di comunicazione persuasiva da iniettare a freddo nel discorso razionale, sono un modo di porsi, un modo di essere. Richiedono quindi una vera e propria rivoluzione nel modo di comportarsi, e, prima ancora, di pensare, da parte dei progressisti.
La manipolazione, come modalità persuasiva esiste, come esiste d’altra parte la modalità ispirativa. Sono queste le due grandi tipologie di leadership, come ci racconta Simon Sinek, in grado di influenzare il comportamento. La prima si basa su promesse o incentivi materiali e può avere successo come sappiamo bene. La seconda può averne altrettanto, anzi è maggiormente in grado di suscitare una adesione duratura, fidelizzata. Ma non puoi trasmettere ispirazione se parli solo dei fatti, se dimostri “solo” competenza descrivendo il cosa, devi essere in grado di trasmettere il perché, evocare e incarnare visione, valori, speranza, senso di fraternità e comunità.
(Questo articolo è pubblicato dalla rivista on line Luminosi giorni. Chi vuole proseguire la lettura può andare al sito: www.luminosigiorni.it)
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