Entro il 15 Ottobre, i paesi UE avrebbero dovuto presentare il piano degli investimenti che intendono finanziare con i soldi del Next Generation EU. Alcuni lo hanno fatto con largo anticipo. L’Italia, non ancora.
Per la prima volta nella storia, l’Europa unita raccoglierà denaro indebitandosi in prima persona e, possiamo ipotizzare, questi soldi arriveranno nella nostra disponibilità, se siamo bravi, a metà 2021.
È un evento epocale. Una sfidante opportunità che capita una volta ogni secolo, forse. Allora, si direbbe, tutti gli intellettuali, le parti politiche, maggioranza ed opposizioni parlamentari, stanno dibattendo sulle scelte da compiere per dare priorità a questa o quella materia su cui investire. Ma per ora non è così. C’è stato l’illuminante discorso di Draghi, qualche esternazione di Matterella, ma nulla più. E c’è da temere che non accadrà proprio.
Un vero peccato.
Nell’attesa che questo silenzio venga colmato ci piace ricordare due frasi di Pietro Calamandrei che, all’alba della nostra Repubblica, disse parole definitive sulla questione delle priorità: «Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola, a lungo andare, è più importante del Parlamento, della Magistratura e della Corte Costituzionale … trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere».
Per comprendere la profondità di queste affermazioni, la scuola va vista nella pienezza del suo potenziale, come il luogo eticamente e culturalmente decisivo dove la personalità, e dunque il destino, dei nostri figli prende forma. Dove bambini e ragazzi possono imparare a relazionarsi con gli altri, mediante prove ed errori, contenuti e corretti dagli insegnanti e, spesso, dai compagni. Insomma, una essenziale palestra di vita, dove la capacità di civile convivenza prende forma in un ambiente protetto. I ragazzi hanno bisogno di sperimentare sulla propria pelle dove siano i limiti dati dal contratto sociale. Hanno bisogno di avere qualcuno che ponga paletti, una comunità educante che faccia loro osservare come ogni loro azione, scelta o atteggiamento avranno delle conseguenze.
Hanno bisogno di essere sottoposti a verifiche, di imparare a gestirne l’ansia e poi, comunque vada, sentirne lo sforzo e insieme la soddisfazione della prova sostenuta.
Queste sono esperienze essenziali per diventare adulti, adulti veri, sani e consapevoli di sé.
Poi ci sono le nozioni, i contenuti su cui riflettere insieme ai compagni e con l’insegnante. Servono in quanto tali, ma servono molto di più come mezzo per acquisire sia le competenze, da applicare a casi di realtà, sia la capacità di pensare, di elaborare informazioni e formarsi un’opinione propria.
E una Democrazia, per funzionare bene, ha bisogno di teste pensanti come dell’ossigeno. Invece lo scorso anno l’OCSE ci ha detto che quasi il 30% degli italiani sa leggere, ma non capisce ciò che legge.
E allora non può essere che questa la priorità numero uno. È essenziale ripartire dalla scuola. Per imparare il processo informato di formazione delle opinioni, per imparare a distinguerle dai fatti e per imparare ad ascoltare quelle degli altri, anche quando non le condividiamo. Ciò che serve per promuovere una convivenza pacifica che aiuti i ragazzi a crescere attingendo gli uni alle risorse intellettive ed emotive degli altri, limitando i conflitti.
Certo, non tutti gli insegnanti sono in grado di insegnare le competenze sociali, insieme a quelle disciplinari. Ma proprio per questo bisogna mettere la scuola al primo posto, anche per una migliore formazione e selezione di insegnanti all’altezza della sfida.
Occorre investire di più in cultura e investire su una scuola di qualità è essenziale per avere un Paese di Qualità.
Ogni volta che si viene chiamati ad esprimere un voto si dovrebbe sentire il bisogno di informarsi accuratamente, riflettere sulle argomentazioni delle parti che si contrappongono e poi saremo in grado di formare la nostra opinione, consapevole e informata, appunto. Per acquisire l’abitudine a svolgere questi passaggi, senza improvvisazioni o sull’onda di uno slogan che ha catturato la nostra attenzione, la scuola è il luogo elettivo, la scuola è palestra di civiltà. Se non lo è abbastanza è giunto il momento che lo sia di più. Ne va del livello di civiltà e dunque di coesione e benessere in cui vogliamo vivere.
Se gli elettori sono distratti, superficiali o ignoranti, otterrà più consenso politico l’esponente più cinico e demagogo di tutti. Il più populista, si potrebbe dire, e non nell’accezione più nobile del termine. Perché egli stimola le nostre pulsioni innate e conservate nel nostro cervello arcaico, non stimola la corteccia frontale, l’intelligere, il pensiero alto, la ragionevolezza. Tutte cose che si potenziano a scuola, dove leggere, studiare, ragionare, risolvere problemi, è cosa di tutti i giorni.
In uno Stato democratico, dove il voto è “uguale”, occorre che l’istruzione di massa raggiunga un livello sufficiente a discernere fra varie opzioni di scelta, essere in grado di comprendere le argomentazioni proposte ed esprimere punti di vista lucidi ed informati, in grado di arricchire il dialogo e la mente degli interlocutori.
Sono convinta che per ottenere questo effetto la scuola sia l’istituzione principe. Ma non una scuola qualsiasi. Occorrono investimenti per avere un’istruzione di qualità. Da troppo tempo si chiede ai docenti di arrangiarsi, di fare sempre più cose con supporti sempre meno solidi.
In tempi straordinari come questi occorre pensare in grande. Proprio come fecero i nostri padri e madri costituenti, che riuscirono ad avere una visione molto lunga, e sapiente, nonostante le loro città fossero ancora piene di macerie. Quelle vere.
I nostri edifici scolastici non portano più i segni delle bombe, ma molti di loro erano già lì, in quegli anni, e già da secoli. Ed anche gli edifici costruiti nei decenni successivi non hanno ricevuto la manutenzione che era necessaria per mantenere funzionalità e decoro. Non ci sono piani pluriennali di manutenzione programmata, perché le Province non hanno i fondi per effettuarle. Almeno così ci dicono ogni volta che si richiede una scala antincendio o il ripristino dell’impianto di riscaldamento.
Eppure la macroeconomia ci insegna che investimenti pubblici (e non solo) di qualità, in conto capitale piuttosto che in spesa corrente, avvierebbero una crescita accelerata, per gli effetti del moltiplicatore keynesiano, che tanto aiuterebbe la ripresa economica. Soprattutto in un anno in cui la variazione del PIL è attesa al -9%, o forse peggio; con tutti gli effetti negativi che ciò comporta su occupazione, reddito e consumi. Dunque, ripartire dalla scuola anche con un grande piano di edilizia scolastica sarebbe un’azione di politica economica espansiva fondamentale per avviare la fase si ripresa nel ciclo economico.
Certo, per aumentare il livello qualitativo dell’istruzione offerta in Italia, non basta l’edilizia scolastica. Occorrono, a mio avviso, almeno altri due tipi di intervento. Tanto per cominciare.
È ormai noto da tempo il collegamento tra formazione, ricerca e sviluppo economico e il fatto che il nostro Paese sia agli ultimi posti nella graduatoria per punti di PlL a ciò dedicati la dice lunga sul nostro declino strutturale. L’istruzione secondaria (scuola superiore) e terziaria (ITS e università) dovrebbero avere un forte legame di collaborazione con il mondo delle imprese, mentre in realtà questo è attivo solo per gli ITS, almeno in teoria. Proprio perché sono stati creati come formazione professionalizzante ed in grado di fornire alle filiere produttive proprio le figure che servono con le competenze che servono.
Le competenze, trasversali e disciplinari, sono fondamentali sia per realizzare una didattica attivante e inclusiva, sia per promuovere la lotta alla disoccupazione giovanile, che in Italia si è ormai stabilizzata da anni attorno al 30% (e adesso non potrà che peggiorare). Ovvero un giovane su tre non trova lavoro e, quando il lavoro lo trova, spesso non è in linea con il suo percorso di studi.
Fra il crescente analfabetismo funzionale, dove siamo posizionati proprio in fondo fra i Paese OCSE, ed un tasso di disoccupazione giovanile altissimo, si capisce bene perché i nostri giovani sono spesso demotivati o scappano all’estero. Ma il quadro demografico di questo paese non può certo permettersi di continuare a veder crescere il tasso di emigrazione giovanile senza far nulla.
E allora, di nuovo, la scuola deve essere la priorità sull’agenda della politica e sulla misura degli investimenti da dedicare alla conoscenza.
A partire dagli insegnanti.
Occorre un nuovo sentimento comune. Basta con la solitaria resilienza dei prof.
Basta con l’avversione verso una categoria maltrattata da genitori – che troppo spesso sembrano i sindacalisti dei propri figli – e da un legislatore che toglie dignità a questa professione, con stipendi molto inferiori ai nostri paesi di riferimento e con luoghi di lavoro che fanno subito capire, a chi vi entra, che lì non si fanno cose importanti. Per non parlare di quello che è accaduto dal marzo scorso ad oggi.
Certo, la dignità del ruolo bisogna anche meritarselo. E allora partiamo dall’inizio.
I corsi di laura triennali che formano alle varie discipline dovrebbero avere una specializzazione mirata all’insegnamento. In modo che, qualunque materia si voglia insegnare, siano le metodologie didattiche più efficaci le cose importante da imparare, insieme alla gestione della classe, all’inclusività, all’attenzione alla sfera emotive ed alle dinamiche di gruppo. E questi percorsi dovrebbero prevedere un tirocinio, da svolgere a fianco dei professori migliori.
A questo punto il reclutamento stesso dovrebbe essere orientato a misurare la qualità della docenza e non i contenuti nozionistici dei vari ambiti disciplinari.
Insomma, la scuola ha bisogno di un progetto di rilancio di lungo respiro. Perché ritorni ad assumere a pieno il ruolo fondamentale che le spetta, restituendo dignità ed orgoglio a chi vi opera.
La scuola è ripartita bene in questo autunno. Nonostante i casi Covid siano di nuovo in crescita, la scuola sta reagendo in modo serio ed adeguato. E non c’è stata affatto la fuga degli “anziani” insegnanti dalla didattica in presenza, su cui molti scommettevano, fra il serio e il faceto, a fine estate.
Non si può sentire, adesso, che rischiamo la chiusura perché gli altri sistemi – quello dei trasporti e quello sanitario – sono in crisi.
In tempo di pandemia, non sono tanto le aggressioni fisiche impartite da alunni e genitori sui docenti a riempire la cronaca sull’argomento scuola, come negli ultimi anni. Ma lo sono le scelte della politica che tratta la scuola come un giocattolo e che originano da un pensiero diffuso un po’ in tutto il paese: la scuola non è importante!
Questa visione determina forme di aggressione molto più subdole e deliranti che vanno assolutamente rovesciate, se vogliamo dare un futuro dignitoso a questo paese.
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