Ora che il turbine della campagna elettorale è finito e – da candidati o da semplici osservatori – siamo al momento della riflessione, forse è il caso di soffermarci su una questione divenuta di importanza fondamentale per il nostro con-vivere civile, sulle quali la nostra soglia di attenzione deve rimanere quanto mai viva e vigile.
Secondo l’amara constatazione della semiologa Valentina Pisanty, una delle maggiori studiose del fenomeno del negazionismo, «Due fatti sono sotto gli occhi di tutti. 1) Negli ultimi vent’anni la Shoah è stata oggetto di capillari attività commemorative in tutto il mondo occidentale. 2) Negli ultimi vent’anni il razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore».
Purtroppo, la innegabile verità di questi fatti dovrebbe interrogarci se vi sia un legame tra essi o se si tratti di fenomeni casuali e irrelati. A tale proposito, Pisanty – da semiologa di razza – invita a riflettere sulle espressioni che in queste occasioni commemorative vengono più spesso utilizzate: espressioni come «per non dimenticare», oppure «mai più!». Frasi senza dubbio evocative, che ribadiscono l’assunzione di un impegno solenne nei confronti delle generazioni passate e future. Il problema però – secondo Pisanty – è che rimanga alquanto indefinita la questione di “cosa” esattamente non debba essere dimenticato, e soprattutto “cosa” non debba succedere mai più.
Ora, è chiaro che a tale ultimo interrogativo ognuno di noi avrebbe una serie di risposte facili e immediate. Come “cosa”? Ma gli orrori della dittatura, della guerra, dello sterminio… Tutte risposte giuste, ovviamente. Ma evidentemente non sufficienti né appaganti, visti i rigurgiti di razzismo e xenofobia quotidianamente sotto gli occhi di tutti, in Italia e altrove.
Secondo alcuni, la risposta andrebbe cercata nel rapporto tra memoria e storia, la prima intesa come coscienza delle tragedie avvenute nella prima metà del Ventesimo secolo, la seconda intesa come conoscenza dei fatti e fattori che quelle conseguenze tragiche hanno determinato.
È quanto tenta di fare, ad esempio, un libro recente dello storico Marcello Flores, a parere del quale l’equivoco è stato di ritenere che la costante presenza della memoria avrebbe facilitato non solo la coscienza ma anche la consapevolezza di quanto è tragicamente acceduto. Purtroppo non è stato così, e né poteva essere diversamente, giacché una memoria senza una solida conoscenza storica alle spalle rischia di diventare meccanica e rituale ripetizione di gesti e frasi che esauriscano la loro “presa” evocativa nello spazio e nel tempo dell’evento commemorativo, ma senza imprimere a fondo una reale consapevolezza delle ragioni e (soprattutto) dei torti.
Ecco perché accanto al dovere della memoria – che non deve mai mancare, sia chiaro – è necessaria anche la trasmissione di un sapere che sia non soltanto “ricordo” ma frutto di autentico – per quanto possibile – apprendimento del passato. È senz’altro importante e utile, oltre che toccante, ascoltare la voce di chi, rievocando fatti di ottant’anni fa vissuti in prima persona, racconta di quando «ci vennero a prendere»; ma sarebbe altrettanto fondamentale che a tale narrazione si accompagnasse anche la comprensione di “chi” realmente fossero e da “dove” realmente provenissero quelli che “vennero a prenderci”. Una comprensione il cui onere non può essere addossato ai reduci e neppure essere ristretto appannaggio di storici, ma che dovrebbe essere patrimonio di ciascuno di noi.
Qui però le cose si complicano. Perché – scrive Flores – «ogni evento storico, e particolarmente quelli più significativi e importanti, è il risultato di forze, pressioni, tensioni molteplici, che è il motivo per cui ogni tentativo di ridurre a una causa unica quanto è accaduto non risulta mai soddisfacente dal punto di vista conoscitivo, anche se può pagare dal punto di vista ideologico, politico, religioso. Comprendere la storia significa, innanzitutto, riconoscerne la complessità, e cioè che a formare e produrre un evento concorrono, in modo e con peso diversi, il più generale contesto globale e locale, le strutture sociali profonde, il ruolo delle istituzioni, le scelte della politica e degli interessi, le mentalità e la cultura dell’epoca, le ideologie e le convinzioni dei protagonisti, i rapporti di forza, gli errori e le capacità delle singole personalità, le multiformi dinamiche casuali che accompagnano la vita».
Sembra difficile non sottoscrivere in pieno queste parole. Inoltre, la conoscenza storica serve a riconoscere le analogie tra epoche diverse (e magari lontane nel tempo o nello spazio), ma anche ad operare le necessarie distinzioni. La storia, quale insieme di fatti materiali e culturali, è ovviamente irriproducibile nella sua interezza. Però è altrettanto vero che lo studio della storia ci può aiutare a conoscere le cause e le dinamiche che hanno prodotto eventi tragici di un certo tipo, aiutandoci a ri-conoscerle nel momento in cui si presentassero – sia pure con vesti diverse. La storia – nel senso di conoscenza di quanto accaduto – ci insegna come vi siano delle “costanti”, il cui verificarsi comporta un avanzamento (oppure, al contrario, un indietreggiamento) sul terreno dei diritti e della democrazia. Anche senza dover necessariamente giungere agli scarponi chiodati e ai campi di concentramento.
Tanto per fare un esempio che ci riguarda da vicino, è ormai assodato che la crisi che giusto cent’anni fa avrebbe portato lo Stato liberale al collasso e poi al crollo sotto i colpi del fascismo trovi la sua origine in una molteplicità di cause: sociali ed economiche in primo luogo, certo; ma anche di natura politica.
Dovendo necessariamente ridurre tutto in poche parole, questa la (estrema) sintesi: a fronte di una radicalizzazione del conflitto sociale, dovuto all’ingresso delle masse nella vita pubblica, le classi dirigenti liberali si dimostrarono incapaci di gestire la situazione sul piano politico. Ma anche le forze del popolarismo e del socialismo si dimostrarono incapaci di gestire le rispettive divisioni interne. In particolare, il movimento socialista fu preda della divisione tra una minoranza riformista (anche disponibile ad una collaborazione con il fronte liberale) ed una maggioranza massimalista rivoluzionaria il cui motto era «fare come in Russia!». Dal canto suo, nel Partito popolare prevalse un fronte assolutamente ostile ad ogni forma di dialogo con liberali e socialisti, e che strizzava l’occhio al nascente movimento dei fasci, al quale tentò inutilmente di contrapporsi una concezione di cattolicesimo politico attenta alle istanze democratiche di cui si fece portatore Don Sturzo, non a caso costretto all’esilio dopo la sconfitta dell’esperimento da lui animato.
Dunque: da un lato, un campo “progressista” profondamente diviso tra riformismo e massimalismo; dall’altro, un campo “moderato” che si sposta sempre più a destra assumendo tratti antiliberali e antidemocratici.
A qualcuno staranno forse fischiando le orecchie, ma sarebbe bene non trarre affrettate conclusioni. È di tutta evidenza, infatti, che non siamo di certo di fronte ad una rinascita del fascismo come lo conoscemmo un secolo fa. E però, complice la crisi economica peggiore del dopoguerra, aggravata dalla vicenda Covid, quelle “costanti” di cui si diceva si sono rimesse in moto. Anche, purtroppo, sul piano delle divisioni politiche, in particolare nel campo progressista. Divisioni che rischiano seriamente di farci fare non pochi passi indietro rispetto a conquiste che consideravamo acquisite una volta per tutte.
Ecco che allora la lezione del passato dovrebbe insegnarci qualcosa. Qualcosa che vada oltre gli ammonimenti a “non dimenticare” – necessari ma purtroppo non sufficienti. Perché la storia ci insegna – o dovrebbe insegnarci – che i passi indietro sulla strada impervia della democrazia e dei diritti si verificano quando le forze democratiche si presentano divise agli appuntamenti cruciali. Quello di oggi in Toscana è uno di essi. Dimostriamo, per una volta, di avere imparato la lezione. Almeno questa volta. Potrebbe essere quella decisiva per la storia dei prossimi anni. Buon voto!
NOTA AL TESTO
I volumi citati nel testo sono quelli di V. Pisanty, I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani, Milano, 2020, e di M. Flores, Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia, Il Mulino, Bologna, 2020. Altri spunti utili in: A. De Bernardi, Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche, Donzelli, Roma, 2018; S. Pivato, Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Laterza, Roma-Bari, 2007; G. Sabbatucci, Partiti e culture politiche nell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 2014.
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