Potestas est in populo, autorictas in senatu (Cicerone, De Legibus, 3.28).
Il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari sta tutto qui.
La mancata comprensione o la negazione del principio di distinzione tra la fonte del potere e la fonte della legge (e, quindi, dell’autorità) porta alla delegittimazione totale della nostra democrazia.
Errore o scelta già compiuta in passato da molti, compresi i protagonisti della Rivoluzione Francese del 1789 con Maximilien de Robespierre in testa i quali, convinti che ogni potere derivi dal popolo in nome della Volontà Generale (eredità filosofica di Jean-Jacques Rousseau), negarono ogni forma di rappresentanza e, quindi, di autorità legittimamente investite della responsabilità di legiferare, governare e giudicare. La volontà popolare si poteva affermare per voce dei capi rivoluzionari o tutt’al più ricorrendo al Plebiscito. Anche la storia d’Italia è stata fatta con plebisciti.
Non così accadde con la Rivoluzione Americana, dove i protagonisti che si definirono (e furono riconosciuti) come Padri Fondatori seppero opportunamente distinguere tra la fonte del potere e quella dell’autorità creando come istituzione fondamentale del loro assetto costituzionale il Senato.
Ecco, Senato versus Plebiscito sono due modi radicalmente diversi e diremmo opposti di intendere e gestire l’espressione della volontà popolare.
Chi predica l’abolizione dell’intermediazione della volontà popolare, chi rivendica il diritto assoluto del dialogo diretto (che poi vuol dire unidirezionale) tra leader e popolo, chi persegue modalità di interrogazione plebiscitaria della volontà popolare possibile oggi attraverso piattaforme digitali (più o meno efficienti e trasparenti) afferma una visione della democrazia ben diversa (e a nostro avviso gravemente peggiorativa) da quella delineata dai nostri Padri Fondatori Costituenti costruita su una complessa articolazione di istituzioni, procedure e regole di governance.
La semplificazione esasperata, improvvisata e immotivata del sistema democratico non può che essere foriero di disgrazie.
Soprattutto se giustificata da un’ideologia sostanzialmente negazionista: istituzioni, regole e procedure non servono, costano e fanno perdere tempo.
Non si migliora il funzionamento della nostra democrazia prendendo a picconate le sue fondamenta, ma aggiungendo valore e qualità.
Pochi parlamentari non sono necessariamente buoni parlamentari.
Per avere buoni parlamentari e, quindi, ricostruire le basi della autorità legittima che fa del Parlamento la sede unica di rappresentanza della volontà popolare non serve un referendum (o plebiscito per usare un altro termine). Serve, invece, la valorizzazione piena della complessa organizzazione della vita democratica del Paese anche per la selezione e formazione di una vera, nuova e capace classe dirigente: rivitalizzazione di forme di associazione partecipativa e anche deliberativa di base (consigli), rilegittimazione dei partiti, animazione del dibattito pubblico sulle questioni d’interesse generale e, soprattutto, sul progetto di futuro.
La Rivoluzione Francese portò alla ribalta una classe sociale di miserabili (cioè una massa di diseredati che davvero non avevano da perdere altro che le proprie catene) e questo la deviò dal percorso di una rivoluzione politica (con obiettivo la libertà, come fu per la Rivoluzione americana) a una rivoluzione sociale (con obiettivo l’affrancamento dal bisogno).
La rabbia verso le élite del tempo giustificò il Terrore, gestito dalla nuova élite rivoluzionaria fino al suo stesso completo annientamento e fino alla dittatura di Napoleone.
La guerra all’élite di oggi e, quindi, a qualsiasi forma di merito, competenza e impegno sta giustificando un nuovo regime consociativo (Movimento 5 Stelle e PD), gestito dalla nuova élite assistenzialista e opportunista che non sappiamo se annienterà se stessa, ma sicuramente sta schiantando il nostro Paese.
Non possiamo certo parlare di una rivoluzione come tentano di qualificarla i vertici del Movimento 5 Stelle (è una definizione troppo nobile per quel che sta succedendo), ma di una rivolta da Masaniello o da lazzari che si trasforma in una scalata al potere, attraverso la rottamazione della classe dirigente preesistente al grido “fatti più in là”, l’occupazione clientelare dei palazzi (ma anche dei locali e localini di pertinenza diretta o indiretta) e l’imposizione di una classe dirigente (“digerente” l’avrebbe definita in altra epoca chi denunciava i “forchettoni” di Stato).
L’ideologia dell’ “uno vale uno” non porta solo alla completa delegittimazione di ogni forma di competenza e di esperienza, ma porta anche al consolidamento della convinzione (già diffusa nella nostra società) che in fin dei conti “uno basta per tutti”.
L’abbiamo già visto.
Oggi siamo al marchese del Grillo. E possiamo ancora (per poco) riderci sopra.
Domani, chissà.
(questo articolo con il consenso dell’amministratore è stato ripreso dal blog www.ilmigliorista.eu)
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