Lei ha una profonda conoscenza dei sistemi di welfare e del welfare del nostro paese. Si fanno spesso comparazioni tra i sistemi dei diversi paesi: ma sono immediatamente confrontabili o sussistono significative differenze tra diversi modelli?
Esistono naturalmente molte differenza ma anche sostanziali analogie che si sono accentuate negli ultimi decenni per effetto di riforme che hanno, in un modo o nell’altro, seguito le stesse tendenze. Anzitutto, i sistemi europei sono in larga misura pubblici, con iscrizione obbligatoria per chi ha una posizione lavorativa, dipendente o autonoma, e finanziati secondo il metodo della ripartizione. Quest’ultimo, contrapposto alla capitalizzazione finanziaria, tipica delle forme pensionistiche private, non prevede accumulazione di riserve finanziarie per il pagamento delle prestazioni pensionistiche ma implica l’utilizzo dei contributi versati in un periodo (anno) per il pagamento delle pensioni nello stesso periodo. In sintesi: chi lavora versa contributi, chi è in pensione riceve il beneficio. Si tratta di una forma di contratto tra generazioni: i “giovani” (più precisamente, i lavoratori) versano oggi una quota del loro reddito da lavoro (in Italia il 33 per cento della loro retribuzione lorda, un po’ meno per gli autonomi) e riceveranno in futuro la pensione dai contributi versati dai lavoratori di allora. Il contratto sta in piedi se c’è un sostanziale equilibrio tra contributi e prestazioni, il che dipende dalla struttura per età della popolazione e dalla crescita economica (più precisamente: dalla crescita dei redditi da lavoro). L’equilibrio dipende però anche dalle formule adottate per calcolare la pensione e, più precisamente, dalla correlazione che si instaura, a livello individuale, tra contributi e prestazioni: se queste ultime sono dettate più da motivazioni di consenso politico che da considerazioni economiche, il disavanzo che ne può derivare deve essere coperto con il ricorso alla fiscalità generale.
Dopo un lungo periodo di trattamenti “generosi” (in termini di età di pensionamento, di formule che legavano le pensioni alle ultime retribuzioni, di indicizzazioni delle pensioni) le riforme, che hanno interessato tutti i Paesi Europei (e non solo) a partire dagli anni Novanta del secondo scorso, hanno perseguito un maggiore equilibrio finanziario. Questo percorso di riforme restrittive si è reso necessario per fronteggiare sia l’invecchiamento della popolazione, sia la riduzione tendenziale del tasso di crescita dell’economia (nel nostro Paese più accentuata che in altri). Esso ha portato ad aumenti dell’età di pensionamento, a formule di tipo contributivo (con una più stretta correlazione tra contributi versati dal singolo lavoratore e prestazioni dallo stesso ricevute), e a riduzioni dell’indicizzazione delle pensioni. Misure certo dolorose ma necessarie per la sostenibilità del sistema, ossia per non addossare oneri eccessivi ai giovani (e alle generazioni future).
Quali sono le principali debolezze del welfare del nostro paese sotto i diversi aspetti che ne definiscono la struttura e l’operatività?
Se parliamo di welfare in generale, inteso come assicurazione pubblica per fronteggiare i maggiori rischi del ciclo di vita – da condizioni inadeguate nell’infanzia all’accesso all’istruzione, anche superiore; dalla salute alla disoccupazione; dal diritto alla casa alla sicurezza economica nell’età anziana – il maggiore difetto del nostro sistema di welfare è di essere sempre stato troppo sbilanciato sulle pensioni e quindi di avere trascurato gli altri rischi del ciclo di vita. Questa visione di un welfare che affronti in modo più efficace, in modo cooperativo con il settore privato, i principali rischi del ciclo di vita è un tema molto ampio che meriterebbe una trattazione a sé, soprattutto nel post Covid-19, dato che la pandemia ci dà l’opportunità, e anche, con l’Europa, le risorse finanziarie per affrontare problemi strutturali del nostro Paese. Se invece ci si limita – come spesso si fa nel dibattito pubblico – al sistema previdenziale la situazione è meno drammatica.
Come infatti ho cercato di spiegare sopra, il nostro sistema previdenziale è pubblico (i fondi pensione, introdotti con la riforma Amato del 1992, che dovrebbero integrare la pensione INPS pesano ancora molto poco nel fornire sicurezza economica nell’età anziana), universale (copre tutte le categorie di lavoratori, salvo i liberi professionisti, la cui assicurazione obbligatoria è gestita – non senza problemi – da specifiche casse previdenziali), a ripartizione e con formula contributiva. Quest’ultima funziona come un “conto di risparmio pensionistico” intestato a ogni lavoratore: ogni euro versato nel corso della vita lavorativa “conta” ai fini della pensione; a parità di versamenti conta inoltre l’età di pensionamento, per cui tanto più elevata è l’età di uscita tanto più elevata è la pensione. Ai contributi si aggiunge un rendimento che è dato dal tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo. Per intenderci: nei fondi pensione, che funzionano a capitalizzazione, l’interesse è finanziario e dipende dalle attività nelle quali i contributi sono impiegati; nel sistema pubblico i rendimenti non possono essere finanziari perché non ci sono accantonamenti ma la crescita del PIL fa crescere il numero dei lavoratori e/o il loro reddito medio e quindi si possono pagare pensioni un po’ più generose senza squilibrare il sistema. E’ un altro aspetto – poco conosciuto – che dà valore sociale alla crescita economica in contrapposizione a decrescite che sono “felici” solo in alcune illusorie rappresentazioni.
Con le riforme – ma senza contro-riforme, come quota 100, una misura populista approvata per generare consenso politico, indipendentemente da considerazioni di oneri, di equità e di priorità sociali – il nostro sistema è tendenzialmente equilibrato. Il vero problema per la sostenibilità sociale è il lavoro. Se dovesse perdurare la nostra incapacità di creare occupazione, per tutti coloro che sono in età di lavoro, inclusi i giovani, le donne e i lavoratori non più giovani ma ancora attivi, il sistema sarebbe evidentemente a rischio di sostenibilità. Si tratterebbe però di un rischio molto più generale per la nostra società giacché è dal lavoro, e non dalle promesse politiche, che dipende la nostra capacità di corrispondere pensioni adeguate e, in definitiva, il nostro benessere individuale e collettivo. Ovviamente, trattandosi di un sistema pubblico sarà sempre richiesto che lo stato aiuti, al di là dei contributi individualmente versati, i lavoratori meno fortunati. Non ha senso però corrispondere a intere generazioni più di quanto le stesse abbiano versato perché ciò significa scaricare oneri sulle generazioni giovani e future.
E’ attesa per l’autunno una ondata di chiusure di aziende con conseguenti licenziamenti mentre andranno ad esaurirsi le risorse per gli ammortizzatori sociali. Effetti di un lockdown che si sovrappongono all’ impatto atteso da diffusione automazione, intelligenza artificiale e ICT in generale. Non basterà attivare tavoli per situazioni di crisi che già oggi raramente portano a risolvere qualche situazione. Quali misure dovrebbero essere adottate per aumentare le opportunità di ricollocamento dei lavoratori e per assicurare nel frattempo un sostegno economico ulteriore?
Nell’emergenza, con oltre la metà delle attività produttive ferme per il lockdown, è stato corretto intervenire fornendo liquidità a lavoratori e imprese, con misure come la cassa integrazione generalizzata, il divieto di licenziamento, la concessione automatica (o quasi) di credito alle imprese garantiti dallo stato. Poi, però, l’attività produttiva deve ripartire e con essa l’occupazione. Questo è il nostro rischio più grande perché non possiamo vivere di sussidi per di più finanziati a debito anche se, grazie all’Europa, questo debito ci costa molto meno di quanto non sarebbe costato allo stato italiano rivolgersi direttamente ai mercati finanziari. Dobbiamo riconoscere questo fondamentale aiuto all’Europa, alla faccia dei nostri sovranisti e delle loro velleità di Italexit (che sarebbe stata una vera sciagura anche indipendentemente dalla pandemia!). Non ci sono però ricette miracolose, né è lecito attendersi soluzioni immediate a problemi strutturali (in particolare: la bassa crescita della produttività del lavoro nel nostro Paese negli ultimi decenni).
La parola “chiave” è “investimento”: in infrastrutture (l’elenco è noto, anche da prima della Commissione Colao), nel sostegno alla transizione verde (che non è detto riesca a mantenere, nel post Covid19, lo stesso carattere di urgenza e lo stesso grado di popolarità di prima); nella rete ospedaliera, di cui l’esperienza Covid ha mostrato l’insufficienza. E’ fondamentale però l’investimento nella scuola, da quella per la prima infanzia al post-laurea, dalla formazione professionale alla promozione di effettive esperienze di life long learning, sempre più necessarie in un mercato del lavoro sempre meno caratterizzato da posti di lavoro stabili e di lunga durata. All’investimento in formazione si aggiunge quello nelle attività R&D, non necessariamente solo pubbliche (anche se il primo e fondamentale luogo di promozione della ricerca rimane l’università pubblica). Sotto questo profilo, importantissimo, mi sembra doveroso segnalare e appoggiare in tutte le sedi possibili il cosiddetto “Piano Amaldi” (dal nome del fisico Ugo Amaldi che l’ha promosso) per un sensibile aumento delle risorse finanziarie da destinare alla ricerca, di base e applicata, in modo da portarci in pochi anni almeno al livello che ha oggi la Francia. Il collegamento tra ricerca e sviluppo economico è fondamentale e conosciuto, e il fatto che il nostro Paese sia agli ultimi posti nella graduatoria per ammontare di risorse in percentuale del Pil la dice lunga sul nostro declino strutturale.
Infine (ma solo per ragioni di spazio), ci sono tutti gli interventi volti a favorire l’incontro tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Occorre riconoscere che con il reddito di cittadinanza e con i navigator non si sono fatti passi in avanti sotto il profilo delle politiche attive, che rimangono alquanto carenti nel nostro Paese.
Appare chiaro il fallimento del reddito di cittadinanza che non è riuscito a assicurare una occupazione se non a un numero assai ristretto di persone. A quali strumenti si deve pensare per riuscire a dare un lavoro ai giovani? Quanto può contribuire una adeguata flessibilità dei contratti? E quanto un livello adeguato di formazione?
Mi ricollego alla risposta precedente per ribadire una valutazione sostanzialmente negativa degli interventi degli ultimi anni sul mercato del lavoro, a cominciare dal “decreto dignità”. Si tratta di provvedimenti molto enfatizzati politicamente ma privi di un serio confronto con la realtà (un po’ come affermare che il pensionamento con quota 100 è un diritto senza preoccuparsi delle conseguenze, né di chi ne sostiene l’onere; è la stessa “logica” di chi non considera i vincoli che sempre si accompagnano al raggiungimento di pur buoni obiettivi). Occorrerebbe sfrondare la politica economica dalle dichiarazioni più ideologiche o di principio e confrontarla molto più con i dati di fatto della nostra economia e del nostro mercato del lavoro, dati che sono a dir poco deludenti da ben prima della crisi finanziaria del 2008.
Le donne sono la parte più debole sul mercato del lavoro.: eppure una loro maggiore occupazione – è stato scritto – sarebbe un contributo importante alla crescita dell’economia. Invece il lockdown ha portato in molti casi le donne a lasciare il lavoro perché sono assai deboli gli strumenti di conciliazione con le responsabilità familiari. Quali a Suo avviso me misure che potrebbero portare ad una crescita sensibile dell’occupazione femminile?
Anche rispetto alla questione femminile problemi di carattere economico si uniscono a questioni di carattere “culturale” o, meglio, di sub-cultura maschilista. E intervenire soltanto sui primi rischia di essere poco efficace. Inoltre bisogna distinguere un’agenda per il breve periodo da un’agenda per il medio-lungo termine, nella quale, anche attraverso strumenti educativi, perseguire in modo più completo la parità di opportunità e di trattamento, senza bisogno di quote e di tassazione differenziata per genere. Anche sotto questo profilo, il nostro Paese sconta molti ritardi, a cominciare dai servizi pubblici per l’infanzia che spesso rendono difficile, se non impossibile, il lavoro delle donne.
E’ noto come un’alta percentuale di donne (circa un quarto) abbandona il lavoro alla nascita del primo figlio (e molte di più alla nascita del secondo) e, in generale, le donne soffrono, rispetto agli uomini, di lunghi periodi di interruzione che sottraggono loro, secondo l’Istat, 5 anni di attività in almeno il 60% dei casi. Oltre ad avere più interruzioni per motivi familiari, i percorsi lavorativi delle donne sono più spesso caratterizzati da lavori atipici, part-time non desiderati e così via. E tutto ciò ovviamente si riverbera sulle opportunità di carriera, sulle retribuzioni e sulla pensione, in media assai più bassa di quella degli uomini e con poche donne nella fascia alta. Di fronte a queste disparità – che persistono nelle giovani generazioni a dispetto del fatto che l’istruzione delle donne sia oggi non inferiore a quella dei maschi della stessa età – si può agire con la politica del “contentino” a posteriori, come nel caso del pensionamento anticipato (“non vi diamo le stesse opportunità ma vi concediamo di uscire prima dal mondo del lavoro, anche per accudire i nipotini”) oppure con misure che perseguano un vero contrasto alla discriminazione. Personalmente preferisco la parità dei diritti e dei doveri al “paternalismo normativo”, insieme a una politica che riconosca valore sociale all’indipendenza economica delle donne attraverso il lavoro e una politica della famiglia che favorisca i servizi di cura e non costringa le donne a periodiche interruzioni. Il Covid-19 ha semplicemente reso più urgente questa direzione di marcia.
L’assistenza è la parente povera del welfare italiano nel quale ad una incidenza della spesa per pensioni sul PIL tra le più alte d’Europa fa da contrappeso una quota tra le più basse per l’assistenza: come si dovrebbe intervenire per rendere disponibili risorse adeguate per necessità in tendenziale forte espansione (penso alla Long Term Care) e con quali meccanismi di finanziamento, anche dei potenziali futuri beneficiari?
Il tema delle “cure di lungo termine” (LTC, secondo l’acronimo inglese correntemente usato) è strettamente legato alla questione del ridisegno complessivo del nostro sistema di welfare. La sua importanza crescente nelle nostre società è essenzialmente legata, da un lato, ai progressi della medicina (che riduce la mortalità di incidenti anche gravi) e, dall’altro, all’invecchiamento delle persone (che aumenta la frazione di anziani e di grandi anziani nella popolazione). Entrambi aumentano il numero delle persone bisognose di cure nello svolgimento delle “attività quotidiane della vita”, dalla capacità di lavarsi, vestirsi, nutrirsi autonomamente alla capacità di afferrare oggetti, deambulare, e così via.
Negli ultimi decenni – oltre al già citato pensionamento anticipato per le donne, di cui anche l’”opzione donna” è un esempio, e all’assegno di accompagnamento – l’Italia ha affrontato il problema delle cure essenzialmente rivolgendosi alle cosiddette “badanti” provenienti dai Paesi dell’Est, anche chiudendo gli occhi rispetto alle loro condizioni di lavoro e di vita, e salvo l’adozione ex post di provvedimenti di sanatoria. In assenza di una vera e propria politica pubblica, i comuni sono stati lasciati soli ad affrontare il problema, con la conseguenza di forti disparità di servizi e di strutture nel territorio.
Questa situazione necessita di un riordino complessivo che parta dalla considerazione delle diverse fasi dell’invecchiamento: una prima fase nella quale si è “anziani giovani” con ancora molte energie e capacità; una seconda, nella quale queste energie si riducono ma il soggetto ha ancora autonomia nella gestione della propria vita e una terza nella quale finisce per sperimentare una dipendenza più o meno forte dalle cure altrui. Il che significa che pensioni e cure sanitarie come strumenti per affrontare l’invecchiamento non sono più sufficienti. La tecnologia offre oggi un grande aiuto ma occorrono servizi e strutture pubbliche (molte famiglie non hanno mezzi sufficienti ad affrontare il costo di un ricovero in strutture private) ed è quindi necessaria un’assicurazione sociale nei confronti della LTC (sul modello tedesco), con risorse ad hoc che non dovrebbero però gravare sul costo del lavoro per non ridurre ulteriormente la competitività delle nostre imprese. Anche questo è un tassello del più generale riassetto del welfare di cui il Paese ha grande bisogno.
Con i recenti accordi l’Europa mette a disposizione dell’Italia risorse importanti per fronteggiare l’impatto della pandemia e riprendere la crescita, che sola garantisce la sostenibilità del debito pubblico. Ovviamente è già cominciato l’assalto alla diligenza con le proposte più diverse, spesso assai poco meditate: secondo Lei quali priorità per l’avvio della riforma del welfare dovrebbero/ potrebbero attingere a queste risorse
Intanto va riconosciuto, ancora una volta, che la nostra appartenenza all’Europa ci permette di affrontare, invece di subirla soltanto, la crisi generata dal Covid 19 e di gettare le basi per un futuro migliore del passato di declino che ci lasciamo alle spalle. E questo dipenderà da noi. Non ci sono più alibi, né “capri espiatori” a disposizione. Per fortuna l’Europa non ci darà risorse senza condizioni. Dovremo dimostrare di avere idee, programmi, progetti, iniziative finalizzate a una visione del nostro Paese nel futuro non proprio remoto, con un percorso coerente e ben definito, con monitoraggio attento e meticoloso degli ostacoli e dei problemi nel frattempo emersi e risultati parziali raggiunti. Un paese che colma i suoi ritardi di istruzione, di ricerca, di investimento in infrastrutture, di conoscenza e di applicazione del digitale, di transizione verso un’economia verde, circolare e socialmente sostenibile. Un Paese dove il contrasto alla povertà non si ferma ai sussidi ma punta all’inclusione; un paese che non discrimina ma persegue la parità di opportunità, e non soltanto di genere. Un Paese con un settore pubblico non necessariamente meno presente ma certo più efficiente, equo e non fonte di inutili costi per le imprese e il lavoro. Un Paese dove la giustizia, anche quella civile, funziona, e senza i ritardi ai quali siamo purtroppo abituati. Un Paese dove il fisco è alleato dei cittadini e ne promuove le iniziative, senza intenti vessatori.
Certo può sembrare un’utopia, e lo è senza un vero innalzamento della qualità della politica, del grado di istruzione e di consapevolezza dei cittadini (antidoti al populismo) e della capacità di ognuno di guardare non soltanto al breve periodo. A ben vedere, sono proprio queste ultime condizioni – istruzione, consapevolezza e lungimiranza – a fornire le basi per un politica migliore. Non è facile ma è semplicemente necessario. Altrimenti continueremo a declinare.
In calce alla Sua Lezione su Quale welfare per l’Italia tenuta al Centro Einaudi di Torino Lei ha citato Wislawa Szymborska “E’ facile, Impossibile, Difficile…. Ne vale la pena”: qualche settimana fa lei ha partecipato ad una iniziativa con i sindaci di Milano e Bergamo, Sala e Gori, e con il Presidente dell’Emilia Romagna Bonaccini per ridefinire idee e obiettivi di un riformismo progressista: Le domando: in sincerità, ne vale la pena?
Ne vale sempre la pena, l’alternativa essendo un atteggiamento rinunciatario, che la mia generazione potrebbe anche adottare ma che vorrebbe dire abdicare ai doveri nei confronti delle generazioni giovani e future.
Alessandro Petretto
Grande studiosa ed eccellente economista. Quando chiamata a responsabilità di governo ha mostrato competenza, coraggio e senso del bene comune. Una vera risorsa per il nostro sgangherato paese. Il confronto con gli attuali responsabili dei dicasteri economici è impietoso e dà un’idea della decadenza che stiamo vivendo
Andrea Bonechi
Condivido in pieno.
Aggiungo che il suo valore e la sua lucidità sono state e sono pari alle critiche becere che ha ricevuto a suo tempo!