Next Generation: non ci bruciamo tutti i soldi per l’oggi.
E’ chiaro a tutti che il “Recovery Plan”, che infatti si chiama più propriamente “Next Generation”, dovrà guardare al futuro. E quindi pochi sussidi, poca spesa corrente di funzionamento e tanti tanti investimenti e innovazione. Le due grandi direttrici potremmo sintetizzarle in “verde e tecnologia” con un obiettivo trasversale che è la “coesione sociale e territoriale” senza la quale è difficile pensare ad un futuro democratico per l’Europa. Verde significa pensare all’ambiente e a ciò che dobbiamo fare per mantenere in equilibrio l’ecosistema con la presenza dell’uomo, a fronte di una fase che oramai “è già qui ed ora” di cambiamento climatico strutturale. Penso ai temi dell’innalzamento dei mari, del susseguirsi ricorrente e improvviso di eventi catastrofici naturali, della siccità come fenomeno normale e così via. Tecnologia è invece un mare vasto dove ci stanno tante cose che possono servire a migliorare la qualità della vita nei prossimi decenni. La digitalizzazione diffusa nei territori, nelle città e nelle imprese ma anche molto di più. L’intelligenza artificiale, la capacità di supercalcolo e di gestione di big data, l’uso di satelliti per gestire la vita della terra e degli uomini, e così via scorrendo tutti i possibili usi della tecnologia nella nostra vita quotidiana e nei processi produttivi.
Investimenti: ma occorre andare oltre le strade e gli edifici.
Non saranno i “soliti investimenti” in strade ed edifici, che pur ci vorranno, ma si aprirà un ciclo di innovazione in punti rilevanti della vita dei cittadini. Che porteranno le comunità a modelli diversi, più evoluti, del vivere quotidiano e porteranno a modi di produzione oggi impensabili.
In questo ambito il cambiamento delle città, grandi medie o piccole che siano, è un elemento centrale dell’agenda politica. Le città nate nel Fordismo e poi pur adattatesi con forti elementi di rigidità alla successiva fase postfordista, più flessibile e più attenta alle relazioni che alle aggregazioni, sono oramai vecchie. Non rispondono se non sporadicamente al concetto di “smart city” che è appunto la città “verde e tecnologica” per definizione. In questo contesto la difesa rigida, ed a volte immotivata, di ciò che già c’è appare del tutto insoddisfacente.
Occorrono tre cose per intervenire nelle città e immetterle in un processo di cambiamento innovativo.
L’urbanistica deve governare le trasformazioni non bloccarle.
La prima è una buona legge di programmazione e quindi di gestione delle trasformazioni. Servono poco gli standard tradizionali, servono poco le procedure burocratiche e servono poco i vincoli eccessivi alla trasformazione come difesa dello “status quo” considerato come argine all’arrivo dei barbari. E servono invece le norme che favoriscono la creazione di spazi belli e utili, che aprono la città a soluzioni creative e che ridanno il pallino della trasformazione ad architetti, sociologi, economisti, urbanisti e studiosi in generale togliendolo dalle mani dei burocrati dell’urbanistica e dei pasdaran del “no al cambiamento”. Dall’Arcadia allo Sturm Und Drang.
Pubblico e privato insieme nella trasparenza. Basta star fermi per la paura degli “speculatori”.
La seconda è la messa a punto di strumenti di investimento pubblico-privato che siano in grado di puntare al “bello” e nello stesso tempo di “stare nei costi”. La trasformazione della città è costosa. E se la lasciamo solo ai privati si rischia di far realizzare soltanto progetti di corto respiro o di bloccare tutte le iniziative. Solo un rapporto, trasparente e controllato dai cittadini, fra privati e istituzioni pubbliche può puntare a generare una progettazione che guarda al futuro. Gli speculatori ci sono, vanno combattuti, ma guai a stare fermi per paura che vincano loro.
Occorre una visione della città. Ma questa non viene dalla burocrazia ma da chi vive la città e la studia.
La terza è la creazione di una visione della città che sia in grado di indirizzare i mille progetti verso la costruzione di una identità urbana che non è fatta della somma d tanti piccoli pezzettini. Il Piano strutturale deve servire a questo. Pero’ liberiamolo da procedure eccessivamente burocratiche tese in questi anni più alla conformità a regole e a indirizzi rigidi che alla scelta di strategie di lungo periodo. E ridiamo alle istituzioni il compito di chiamare i migliori cervelli, i rappresentanti delle forze vive della città, i cittadini e le loro associazioni a lavorare per definire una visione. Che sia non tanto la “foglia di fico” con cui coprire la “solita gestione di sempre” ma piuttosto lo strumento di indirizzo di tutta l’attività pubblica e, sulla base di accordi, anche privata della città. L’analisi strutturale, così reinventata e resa viva rispetto alla dinamica della città, può agevolmente e proficuamente inserirsi e integrarsi col piano operativo che potrebbe diventare l’unico strumento della pianificazione regionale. La proposta di realizzare questo principio per i piccoli comuni toscani avanzata da Italia viva in consiglio regionale toscano va in questa direzione. E sembra un buon passo in avanti.
Insomma il Recovery Plan, Next Generation, è una occasione per pensare al futuro, Non sciupiamola per fare le “solite cose” o anche peggio. E’ abusato, è vero. Ma in questo caso calza bene. Rilanciamo, partendo da Firenze e dalla Toscana, un nuovo Rinascimento dopo il Covid19. Se non qui e non ora, dove e quando?
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