Il settore degli investimenti pubblici italiano sembra destinato a continue rivoluzioni. Tra il 2016 e il 2019, infatti, la normativa di settore ha subito almeno 3 importanti revisioni: il varo del nuovo Codice dei Contratti (D.Lgs 50/2016), il correttivo al Codice (D.Lgs 56/2017) e il c.d. intervento “sblocca cantieri” (DL 32/2019 e Legge 55/2019). L’ultima importante revisione in ordine di tempo è quella contenuta nel recentissimo Decreto Semplificazione (DL 76/2020), che trae principale motivazione dalla necessità di imprimere una sostanziale accelerazione sia nel volume complessivo delle procedure avviate che nella realizzazione dei singoli interventi nella fase successiva al lockdown, definendo un quadro regolatorio che consenta un immediato recupero di quanto perso nel periodo Covid e un sostegno aggiuntivo alla domanda aggregata.
In questo senso le misure contenute nel Decreto Semplificazione sono un ennesimo tentativo di rilancio affidato a un’operazione di deregolamentazione che, come nel caso dello “sblocca cantieri”, ha carattere transitorio (fino al 31 Luglio 2021) e sperimentale.
Nel suo complesso, il Decreto agisce nel senso di un ribilanciamento del controllo del ciclo di vita del contratto pubblico a favore delle stazioni appaltanti, favorendone l’operato attraverso una maggior facilità di ricorso a soluzioni discrezionali e una riduzione degli oneri procedimentali ottenuta anche semplificando il dialogo con gli enti preposti al rilascio di autorizzazioni e con le imprese aggiudicatrici. Introduce però anche elementi di forte incentivo, in alcuni casi si potrebbe dire quasi muscolare, al rapido espletamento delle loro funzioni.
È possibile provare a riassumere i contenuti del provvedimento utilizzando una chiave di lettura basata sulle principali fasi del ciclo di vita di un contratto di lavori pubblici. In particolare, il Decreto interviene sia sulla fase di programmazione/progettazione, su quella di affidamento e su quella di esecuzione.
L’importanza, anche mediatica, attribuita al tema delle “gare” impone di non seguire l’ordine delle fasi ma di concentrarsi in primo luogo sulla fase di affidamento.
Il Decreto prevede infatti un’estensione senza precedenti dei lavori avviabili ricorrendo all’affidamento diretto e alla procedura negoziata rendendo di fatto potenzialmente esclusi dal meccanismo di gara circa il 99% dei lavori pubblici (che ammontano a circa il 60% del valore totale) ovvero quelli di importo inferiore alla soglia che definisce le opere di interesse comunitario (5.548 Milioni di Euro). Inoltre, viene facilitato l’impiego di soluzioni negoziate anche al di sopra della soglia comunitaria, rendendo più semplice il ricorso a procedure d’urgenza (che le giustificano).
Sebbene la procedura negoziata preveda una sorta di confronto competitivo, questo intervento pone importanti interrogativi sulle conseguenze in termini di concorrenzialità del mercato. Vero è che le soluzioni negoziate, oltre al vantaggio della velocità di affidamento e della riduzione dei casi di contenzioso in fase di affidamento (che sono i punti deboli delle gare, le procedure aperte) hanno anche, in alcuni casi, quello della più efficace individuazione dell’impresa più affidabile: il maggior dialogo tra imprese e stazione appaltante riduce le asimmetrie informative oltre a facilitare la completezza contrattuale. È anche vero però che questo vantaggio è supposto essere più consistente per le opere di alto importo e complessità e non è dunque lecito pensare che – in qualunque caso e situazione – possa compensare gli svantaggi che derivano da una riduzione di concorrenzialità.
A detta di molti osservatori, l’intervento del decreto sulle procedure di affidamento non è inoltre privo di aspetti discutibili sotto il profilo della tutela della legalità e del contrasto ai fenomeni di corruzione e infiltrazione mafiosa. Non ricorrere alle gare rende potenzialmente più probabile la “cattura” degli amministratori da parte delle imprese locali.
Su questo punto è bene dire però che pare virtuoso lo sforzo di semplificare le modalità di accesso alle certificazioni di legalità (e non solo) in possesso delle imprese, cercando di garantire anche tempi certi per l’ottenimento degli approfondimenti del caso da parte delle prefetture, quando necessari.
La fase dell’affidamento è anche quella in cui è richiesto – sebbene in un contesto che come si è detto è stato reso molto favorevole alle stazioni appaltanti – un maggior sforzo da parte di queste nel garantire tempi certi. Il Decreto impone infatti al responsabile del procedimento di procedere all’aggiudicazione definitiva entro un termine massimo di due mesi (per l’affidamento diretto) o di quattro mesi (per le procedure negoziate) dall’avvio del procedimento prevedendo responsabilità per danno erariale in caso di mancato rispetto dei termini. D’altro canto, e si tratta di un punto molto importante, si prevede anche l’esclusione dell’impresa aggiudicataria nel caso in cui i ritardi – compreso quello nell’avvio dell’esecuzione – siano imputabile a quest’ultima.
Se si può dire, in generale, che tutti gli interventi del Decreto siano marcatamente connotati dall’esigenza di una immediata ripresa del volume degli investimenti, è indubbio che – al di là del carattere transitorio della disciplina – alcuni di questi siano candidati a imprimere un cambiamento di natura strutturale sulla modalità di approvvigionamento delle amministrazioni pubbliche o che, almeno, siano destinati a generare effetto su un orizzonte temporale di medio periodo.
Si tratta, in particolare, degli interventi sul fronte dell’esecuzione dei lavori (e più in generale dei contratti) che definiscono una nuova modalità di relazione tra impresa e stazione appaltante e quelli sul fronte delle procedure autorizzative di natura ambientale (VIA, VAS, IPCC, siti di bonifica) che interessano invece la relazione tra stazione appaltante e enti/autorità preposte al controllo.
Nel caso dei primi viene, ad esempio, introdotta una più rigida definizione delle fattispecie che possono dar luogo alla sospensione dei lavori, limitandone al contempo il numero. Inoltre, per i lavori sopra la soglia comunitaria, viene introdotto il Collegio Consultivo Tecnico, organo nominato dalla stazione appaltante e preposto alla prevenzione di controversie tra questa e l’appaltatore, le cui decisioni hanno valenza di lodo contrattuale (o arbitrato irrituale). Con tutta probabilità non si tratterà di una soluzione sempre in grado di risolvere le maggiori frizioni tra ente e impresa, ma potrà senz’altro fornire un valido sostegno tecnico e giuridico al processo decisionale della stazione appaltante in merito alla gestione dell’opera.
A questi interventi si aggiunge l’istituzione, nello stato previsionale del MIT, di un Fondo per la prosecuzione delle opere pubbliche, alimentato anche dai residui degli enti, che consenta di far fronte a maggiori fabbisogni finanziari riscontrati in corso d’opera.
Per quanto riguarda invece gli interventi che hanno ad oggetto la fase a monte, ovvero quella autorizzatoria ambientale, il Decreto opera una riduzione complessiva dei tempi massimi previsti per le diverse fasi dell’interlocuzione tra amministrazione competente e proponente: si interviene dunque sui termini per la presentazione di controdeduzioni, per il rilascio di pareri, per la richiesta di integrazioni e per la consegna di tali integrazioni. Viene inoltre previsto un maggior livello di definizione del progetto per il quale si richiede la valutazione di impatto ambientale, in modo da evitare ritardi dovuti a successive richieste di chiarimenti da parte dell’amministrazione competente al rilascio della valutazione. A facilitare questo passaggio, il Decreto introduce la possibilità, per il proponente, di definire anticipatamente, con l’autorità competente il livello di dettaglio opportuno, in modo da scongiurare eventuali intoppi nella procedura.
Le misure contenute nel Decreto rappresentano senz’altro una cura shock per il mercato dei contratti pubblici, i cui effetti potrebbero essere visibili sin dalle prime fasi di applicazione della nuova normativa..
A questo proposito è utile ricordare che, in contesto decennale di sostanziale diminuzione del flusso degli investimenti pubblici, gli importanti cambiamenti normativi nel campo dei contratti pubblici intervenuti negli ultimi cinque anni, hanno condizionato il processo di ripresa del settore. In particolare, l’entrata in vigore del nuovo Codice dei Contratti (D.Lgs. 50/2016) è coincisa con un significativo calo delle procedure avviate, riassorbito solo nell’arco dei quattro anni successivi sia grazie a un processo di adattamento alle nuove norme da parte delle stazioni appaltanti, sia grazie a successivi interventi che hanno in parte semplificato il quadro normativo degli appalti e aumentato la capacità di spesa delle amministrazioni agendo sulla normativa di bilancio.
A livello nazionale, il 2019 è stato l’anno che ha fatto segnare il numero più alto di lavori pubblici avviati negli ultimi 8 anni, confermando inoltre l’alto livello degli importi già raggiunto nel 2018.
L’evento pandemico e le relative difficoltà nell’espletamento delle procedure amministrative hanno di fatto interrotto questo trend di crescita dell’attività di investimento delle stazioni appaltanti. Nel trimestre Marzo-Maggio 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019 si è verificata una corposa riduzione del numero delle procedure avviate (-44%). Tuttavia, questa riduzione non si è verificata nel loro importo complessivo (+3%). Questo dato è legato però in gran parte all’attività delle stazioni appaltanti di livello nazionale, in particolare dei concessionari di reti e infrastrutture, che hanno dato avvio, anche durante il lockdown, a pochi lavori ma di importo elevato in molte regioni.
Il comparto che ha più risentito del lockdown è stato invece quello comunale, che avvia mediamente circa il 50% delle procedure e che mostra un’impressionante flessione sia nel numero che nell’importo dei lavori pubblici rispetto al trimestre Marzo-Maggio del 2019. I comuni sembrano aver sostanzialmente congelato la loro attività di procurement, considerato che simili cali percentuali si registrano anche nei settori di acquisto beni (forniture) e servizi. Questa brusca frenata – se protratta e non adeguatamente compensata da interventi futuri – rischia di compromettere il trend positivo che ha caratterizzato l’attività delle stazioni appaltati negli ultimi anni. Fa ben sperare tuttavia il fatto che i comuni avessero iniziato a colmare -negli anni immediatamente precedenti al 2020 – il ritardo rispetto ad altri comparti dell’amministrazione pubblica, recuperando una capacità di spesa che si spera non venga strutturalmente intaccata dai recenti eventi.
Proprio il fatto che la deregolamentazione/semplificazione si concentri prevalentemente sulle opere di importo minore suggerisce che la strategia sia quella di puntare sull’attività delle piccole e medie stazioni appaltanti – i comuni in particolare – che è anche quella maggiormente colpita dal lockdown sia per la conseguente riduzione delle risorse finanziarie destinabili a nuove opere, sia per le comprensibili difficoltà organizzative del periodo appena trascorso.
La necessità di imprimere una svolta e un’accelerazione della spesa in conto capitale delle amministrazioni periferiche (e non) è un tema che, in ogni caso, non è circoscrivibile all’attuale congiuntura post-pandemica ma che è al centro del dibattito pubblico da almeno un decennio. Nella prospettiva ancora non abbastanza definita di nuovi apporti di risorse comunitarie (MES, Recovery Fund), l’intervento sulle regole di funzionamento del mercato degli appalti è senz’altro la strada da percorrere per ottenere risposte in tempi rapidi e massimizzare la capacità di spesa delle amministrazioni pubbliche.
Tuttavia, è utile ricordare che il sistema degli appalti italiano è vittima da anni di una oscillazione tra due contrapposte visioni, l’una più rigorista e l’altra più improntata al laissez-faire che si traducono in continue e per certi versi spiazzanti regolamentazioni e deregolamentazioni, con il frequente richiamo allo strumento commissariale come soluzione ultima alla diatriba.
Rimane invece sullo sfondo la questione dell’effettiva concorrenzialità e dell’efficienza del mercato. In questo senso, negli ultimi anni si è a fatica perseguita la transizione da un modello in cui il buon funzionamento del settore poggia sulla capacità delle amministrazioni di selezionare l’impresa esecutrice tenendo conto prevalentemente della propria esperienza diretta (e spesso di una conoscenza diretta) a un modello in cui lo stesso risultato è perseguito attraverso un’estensione dell’ambito di applicazione delle procedure di evidenza pubblica e del principio di rotazione e che punta sull’apertura alla concorrenza dei “mercati” locali. A guidare questa (incerta) transizione sembrano essere state però finora più ragioni attinenti al tema della legalità che a quello dell’effettivo efficientamento del sistema e questo ha probabilmente ostacolato un’efficace coniugazione tra concorrenza e velocità di spesa.
Il Decreto Semplificazione interviene certamente in senso opposto, come già in parte fatto dallo “sblocca cantieri”. Lo fa, comprensibilmente, perché la velocità di spesa è priorità assoluta nella contingenza post-emergenziale. Resta da capire quanta parte delle innovazioni che introduce sia effettivamente pensata come transitoria e quanto invece risponda a una volontà di riportare strutturalmente il controllo pubblico al centro del sistema degli appalti, anche a costo di limitare la concorrenza.
Lascia un commento