Nei giorni più difficili della crisi pandemica, quando ci si attendeva dagli scienziati indicazioni precise e sicure su quanto stava accadendo e sui comportamenti conseguenti che dovevano essere adottati, mi è venuto in mente un episodio che riguarda Ludwig Wittgenstein e che viene raccontato nella sua biografia scritta da Ray Monk. Il pensatore che nel Tractatus logico-philosophicus aveva detto che su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere, intendendo con questo dire che ciò che può essere detto sono di fatto solo proposizioni della scienza naturale, negli anni ‘30 girando per Cambridge e vedendo nella vetrina di un negozio di libri i ritratti di Freud, Einstein e Russell e poi accanto, in quella di un negozio di dischi, i ritratti di Beethoven, Schubert e Chopin, disse a un amico: “confrontando questi ritratti sono rimasto profondamente colpito dalla terribile degenerazione dello spirito umano nel corso di non più di cent’anni”[1].
Quello che Wittgenstein osservava con una qualche forma di evidente disappunto, era l’ingresso in un’epoca dominata dallo spirito della scienza, nella quale, sempre secondo Wittgenstein, gli scienziati erano diventati quello che un tempo erano stati gli artisti e i filosofi, ovvero coloro che segnavano le coordinate dentro le quali andava assumendo corpo lo spirito della vita e del tempo. Wittgenstein – che non può certo essere accusato di essere un pensatore anti-scientifico – vedeva con preoccupazione questa torsione, in quanto essa rischia di far pensare che tutto ciò che riguarda la nostra vita – la dimensione più intima della nostra esistenza, ma anche tutto che riguarda le decisioni relative al nostro essere una comunità – possa essere regolato in modo immediatamente conseguente e coerente dal sapere scientifico, come se le conoscenze scientifiche fossero in grado di produrre in modo automatico decisioni e scelte di vita.
Wittgenstein aveva ovviamente ragione. Non c’è di fatto oggi nessun’altra manifestazione spirituale che sia in grado di costituire una base di credenze determinanti per la nostra vita altrettanto potente di quella della scienza. Non lo sono le religioni, ad esempio, che non a caso si sono perlopiù piegate nei giorni più caldi della pandemia – suscitando anche l’insensato scandalo di qualcuno – alle indicazioni che trovavano il loro fondamento in quanto la comunità scientifica andava dicendo. Non lo sono le ideologie secolari, nessuna delle quali appare oggi in grado di incidere in modo davvero stringente sui sistemi di credenze che fanno da sfondo alle vite degli individui.
E tuttavia, per quanto a un livello diverso di considerazione, il mondo contemporaneo sembra anche smentire la diagnosi wittgensteiniana. Il mondo dei social network, il mondo della propaganda, il mondo del “si dice” globalizzato, delle opinioni tutte poste sullo stesso livello, sembra mandare in frantumi l’autorevolezza del discorso scientifico e con essa, conseguentemente, l’idea che la scienza sia in grado di essere la struttura fondamentale di governo dell’esistente.
Affrontare questo problema richiede una riflessione sulla percezione sociale della scienza e quindi sui rapporti fra scienza e comunicazione e ancora più radicalmente fra scienza e politica.
Tanto i mezzi di comunicazione quanto la comunità scientifica hanno un’enorme responsabilità nel veicolare le questioni di cui la scienza discute. Per comunicare la scienza è necessaria una consapevolezza che non solo spesso chi fa comunicazione non possiede, ma che talvolta gli stessi scienziati che pretendono di comunicarla mostrano di non possedere. Scienziati che vanno in televisione presentando previsioni necessariamente incerte con la certezza dell’uomo di fede, facendo passare un’ipotesi scientifica che deve essere discussa e vagliata dalla comunità per verità acquisita, incarnano di fatto un atteggiamento radicalmente antiscientifico. E il fatto che siano magari ottimi ricercatori, eccellenti scienziati, rende il loro atteggiamento ancora più antiscientifico di altri, a dimostrazione che si può praticare in modo raffinatissimo la ricerca scientifica con una scarsissima consapevolezza dei concetti che la costituiscono[2].
La scienza è strutturalmente incerta, mai definitiva, immersa per sua natura dentro un procedimento continuo di correzione, necessariamente falsificabile, aperta al controllo, normativamente sottoposta alla discussione. L’idea che la scienza debba essere caratterizzata da certezze indubitabili e che la comunità scientifica debba essere monoliticamente coesa attorno a tali certezze è un’ideologia strutturalmente antiscientifica, che disconosce la natura della procedura e della pratica scientifica. Una comunicazione che non tiene conto di questo è, conseguentemente, una comunicazione antiscientifica.
Rispetto al rapporto fra scienza e politica, esso è straordinariamente complesso e articolato su diversi livelli di interazione. Ciò che è emerso nei giorni più difficili della pandemia è stato, da parte di alcuni, il desiderio che la scienza assumesse direttamente una funzione di governo – cosa che nel momento più critico è forse anche avvenuta. Peraltro, non è normale pensare che siamo finalmente entrati in un’epoca nella quale le conoscenze tecnico-scientifiche sono quelle che devono determinare non solo le norme igienico sanitarie della nostra convivenza, ma più in generale tutta la prassi politica? Non è oramai la politica essenzialmente una pratica tecnico amministrativa la cui efficacia e la cui efficienza deriva direttamente dalle conoscenze tecnico scientifiche che insieme la sostengono e delle quali dovrebbe essere perciò l’esito necessario?
La politica era determinata nella classicità come una forma di saggezza, in quanto essa sarebbe l’arte di comprendere qual è la decisione giusta all’interno di un contesto sempre particolare e mai del tutto universalizzabile. Un’arte che implica dunque la capacità di interpretare la situazione, ogni volta peculiare e contingente, dentro la quale è necessario decidere. Per poter decidere la politica ha perciò sempre bisogno di conoscenze e di competenze tecniche che le consentano di valutare la situazione e prevedere – per quanto in modo necessariamente incerto – gli esiti di una certa azione. Una politica che decidesse indipendentemente dalle conoscenze, sarebbe una politica folle, scriteriata, come quella di cui abbiamo avuto testimonianza potente in occasione della pandemia negli USA di Donald Trump o nel Brasile di Jair Bolsonaro.
Attenzione, però: dire che la politica ha bisogno delle conoscenze per decidere non significa che le conoscenze producano di per sé decisione, che sia possibile o anche solo auspicabile un governo in cui le decisioni derivino automaticamente dalle conoscenze. Una tale visione sarebbe da una parte la negazione assoluta dello spazio autonomo e libero della politica e dall’altra, al contempo, il riflesso della convinzione secondo la quale la vita politica degli uomini può essere determinata e decisa a partire solamente da calcoli e previsioni. Una politica che fosse del tutto determinata dalle conoscenze, che facesse discendere tecnicamente le decisioni dalle conoscenze scientifiche, sarebbe, in qualche modo, una politica orribilmente automatica, una politica che non avrebbe bisogno di discussione alcuna intorno alle decisioni, in quanto queste sarebbero la conseguenza banalmente coerente delle conoscenze che la sostengono.
La politica ha bisogno delle conoscenze: le deve chiedere, le deve valorizzare, le deve sostenere. Al contempo la politica è sé stessa solo se è anche consapevolezza che le conoscenze da sole non determinano la decisione, che la decisione per essere adeguata alla situazione specifica e alle contingenze particolari dentro le quali essa assume corpo, richiede una assunzione di responsabilità che si gioca nel saper mettere in relazione senza poter contare sulla certezza di un esito meramente calcolato le conoscenze e la concretezza del mondo. Perché in fondo è questo quello che differenzia il vivere politico degli esseri umani dal funzionamento fluido e senza sbavature di una macchina ben congegnata: sapersi assumere la responsabilità di un’azione di cui non si può mai conoscere anticipatamente e precisamente l’esito cui essa conduce.
Note
[1] R. Monk, Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Milano 2019 (1991), p. 298.
[2] A questo proposito sarebbe interessante riflettere anche sui percorsi formativi universitari. Così come molti corsi di laurea dell’area delle scienze naturali o delle scienze applicate spesso non ospitano nessun corso di epistemologia o anche più in generale di riflessione filosofica sulla scienza, i corsi dell’area delle scienze umane e sociali spesso sono privi di aperture significative alle aree delle scienze naturali. Questo produce spesso scienziati senza cultura epistemologica e umanisti – e talvolta persino epistemologi – privi di cultura scientifica nel senso delle scienze matematiche e naturali.
(con il consenso dell’autore l’articolo è tratto da un volume pubblicato da Padova University Press)
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