Le annose vicende Autostrade, Ilva, Alitalia, Monte dei Paschi e molte altre sollevano un quesito non nuovo ma mai risolto. Si tratta di capire perché uno stato che fa fatica a riscuotere le entrate tributarie e a fornire i principali beni pubblici, sviluppa una scadente redistribuzione intragenerazionale e intergenerazionale della ricchezza, scopra la missione di diventare imprenditore e produttore di beni privati e banchiere. Nel campo dell’istruzione, della giustizia, della tutela dei diritti fondamentali come la salute e anche dei rapporti internazionali, il nostro paese accumula, da almeno un decennio, una serie impressionante di performance negative, dimostrate da molti studi e rilevazioni da parte dei principali organismi internazionali. Non esaltanti sono anche le collocazioni del paese in tema di parametri di misura della corruzione, trovandosi in compagnia di paesi sottosviluppati o democrazie limitate. Invece di concentrarsi su queste debolezze strutturali, lo stato in Italia aspira a gestire autostrade, linee aeree, acciaierie, fabbriche di automobili, fino alle mitiche fabbriche di panettoni e ai mitici i negozi di barbiere (come sosteneva Nenni nel dopoguerra) o di prosciutti e yogurt comunali. Quel che è peggio, sembra che ciò sia visto di buon occhio dai cittadini-elettori, permeati da una cultura risarcitoria da parte dello stato, possibilmente a debito, e un’ancestrale diffidenza nei confronti del mercato e dei benefici e della concorrenza.
La questione deve essere trattata con riferimento a situazioni emergenziali originate da crisi oppure a scelte strategiche di lungo periodo. Dal primo punto di vista, l’intervento dello stato proprietario e imprenditore si giustifica per gli effetti deleteri sul tessuto sociale di shocks profondi e globali. Laddove hanno avuto successo questi interventi hanno assunto un profilo temporaneo: alla fine dell’emergenza, con le imprese di nuovo in equilibrio e in utile, lo stato si è ritratto. Se ciò non avviene l’opzione diviene di strategia politica e sottintende una predisposizione consolidata a impiegare lo strumento produttivo per fini politici, in definitiva a carico del debito pubblico. E il rischio incombente è quello di avere un Toninelli o un Di Maio imprenditore dell’acciaio.
Il tema è stato trattato a lungo dalla teoria economica, fin dagli albori, su su per tutto il novecento, fino ai contributi dei recenti Premi Nobel come Eric Maskin e Jean Tirole, nonché dei compianti Jean Jacque Laffont e Alberto Alesina. Il corpo di questa teoria – che non è stato scalfito da alcune improvvisati apprendisti stregoni che riempiono le edicole degli aeroporti con improbabili trattati sulla “nuova economia” – affida alla regolamentazione indipendente il compito di orientare verso il bene comune l’attività imprenditoriale privata, impedendo lo sviluppo di rendite e imponendo adeguati profili di investimenti. Il modello per funzionare richiede una politica consapevole della delicatezza della separazione tra regolatore e impresa e capitalisti non squali, ma onesti percettori di profitti normali. Proprio quello che non ha funzionato nella vicenda Autostrade, dove il governo a lungo ha rinunciato a valorizzare il ruolo dell’Autorità dei Trasporti, che ha le competenze tecniche per fissare strutture tariffarie adeguate e collegate agli investimenti realizzati, e la concessionaria ha disconosciuto e avversato duramente questo ruolo, preferendo l’opacità della trattativa diretta con il ministero, a colpi di potere occulto.
Il modello ha invece funzionato con i servizi pubblici locali regolati da ARERA, energia, gas, servizio idrico e ora anche rifiuti: tariffe moderate da meccanismi tecnicamente sostenibili, volume di investimenti in crescita costante, controllo pervasivo della qualità e delle ricadute ambientali. La controprova si ha con il servizio idrico, dove le gestioni in economia o con aziende speciali municipalizzate, non soggette a regolazione di ARERA, conseguono performance molto meno buone delle aziende regolate di proprietà pubblica o pubblico/privata. Ma il pericolo è sempre in agguato: nostalgie municipalistiche e una cultura da “decrescita felice”, ammantate dal totem dell’“acqua pubblica”, insidia la riorganizzazione del settore che dovrebbe invece muovere in direzione dei modelli europei con grandi player industriali.
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