Il liberismo nel mondo ha creato non pochi problemi. A partire dagli anni 70 nelle accademie americane, con una punta avanzata in quel di Chicago, e quindi negli ani 80 e successivi nella politica e nei Governi ha messo il mercato al centro della vita economica. Uno strumento utile per la ricerca dell’efficienza operativa in grado di allocare al meglio le risorse produttive e di distribuire i redditi fra i fattori della produzione è diventato un totem. Un oggetto da adorare che ha dispensato premi e sanzioni ai popoli del mondo. Chi si è adattato alla sua logica “naturale” ha vinto. Chi ha cercato di contrastarla ha miseramente fallito. Il keynesismo è diventato un ferro vecchio e il ruolo dello Stato nell’economia è andato via via perdendo legittimità. Privato era bello. Pubblico accettabile pur con sacrifici da inefficienza soltanto in alcuni limitati settori. Per i neoliberisti i keynesiani e i fautori del ruolo pubblico dell’economia, non solo nel ristretto spazio dei beni pubblici puri e impuri o dei beni meritori, sono stati messi nel grande, perdente, armamentario del comunismo reale. E con la sconfitta del comunismo il neoliberismo è sembrato diventare l’unico principio valido per il governo dei paesi ad economia avanzata.
Ed effettivamente l’esito di un “tal vittoria” è stato nefasto. Le disuguaglianze sono aumentate a dismisura, è cresciuta la precarietà nel lavoro, le economie hanno avuto crisi continue con livelli di disoccupazione preoccupanti e anche nelle società avanzate è aumentata l’insicurezza verso il futuro. In particolare nel mondo delle nuove generazioni.
Combattere oggi contro le politiche neoliberiste e cercare di abbattere il totem del pensiero unico mercatista è una cosa saggia e buona. L’uomo ha fatto progressi impensabili nel mondo della conoscenza scientifica e del sapere tecnologico. E’ davvero imbarazzante di fronte a queste conquiste che ci sia una sorta di arretramento nei confronti della capacità di gestire le crisi economiche. Quasi che l’economia, con le sue regole “naturali”, dettasse gli obiettivi alla politica incapace di scrollarsi di dosso una sorta di impotenza di fronte alle logiche di mercato. E’ chiaro che questa del liberismo è una storia che si racconta, e che le comunità del mondo vivono, ma non è l’unica storia possibile.
Negli ultimi anni si sono levate da più parti le critiche a questo sistema di principi, di regole e di valori. Il “mercato lo vuole” è parsa sempre di più una scelta politica che una regola non modificabile. E lo Stato, come principio regolatore, e gli Stati come soggetti reali hanno ricominciato a mettere la testa fuori dal guscio. Il liberismo, il mercato, l’austerità, i sacrifici sono apparsi nella loro realtà, come posizioni politiche, e non come portati indiscutibili dell’adesione all’economia di tipo occidentale.
La crisi da coronavirus ha intercettato questo clima di cambiamento e ha rafforzato l’idea di un ritorno di centralità dello Stato nel governo delle comunità e come strumento di intervento nell’economia alternativo al mercato.
E fino a qui, consideriamo questo processo come un elemento positivo nella nuova fase del dibattito economico sia di tipo teorico che di politica di governo.
Ma, specialmente in paesi arretrati e deboli come l’Italia, questo “nuovo corso” rischia di dissotterrare oltre a vecchi strumenti che possono rivelarsi validi nell’attuale situazione economica e sociale anche dei ferri vecchi dello statalismo, comunista ma anche di altra natura, che rischiano di riportare, in nome del giusto abbandono del neoliberismo, ad una gestione fallimentare del governo dell’economia.
Ed allora vediamo di fare chiarezza su alcuni punti.
Intanto la gestione operativa dei processi, siano essi di produzione di beni che di servizi, sono più efficienti se fatti da un sistema privato che da un sistema pubblico. Le ragioni sono tante e di diversa natura. Ma hanno a che fare in primo luogo con la gestione delle risorse umane e con il tasso di innovazione, non solo tecnologica. Pertanto laddove c’è da gestire un processo deve prevalere la presenza privata specie se è possibile mettere la gestione in un regime di concorrenza fra più soggetti.
Laddove non sia possibile la concorrenza è ancora prevalente la gestione privata ma l’assenza del “cane da guardia” concorrenziale deve essere svolto da un regolatore pubblico in grado di mettere alla corda il gestore privato. Evitando così inefficienze ed extraprofitti da monopolio.
Solo quando non è possibile applicare una gestione privatistica si può lasciare la gestione dei processi al pubblico ma sapendo che l’inefficienza sarà un prezzo da pagare alla mancanza di concorrenza e alla mancanza di qualsiasi altra forma di “cane da guardia”.
La gestione privata dei processi nulla ha a che vedere con la privatizzazione di un bene o un servizio. La privatizzazione prevede che un bene o un servizio oltre ad essere prodotto sia anche distribuito secondo una logica privata, di mercato. La gestione privata invece cura la parte produttiva ma non necessariamente quella distributiva. La gestione dell’acqua, per esempio, pur se gestita privatamente da imprese non è distribuita con logiche di mercato ed è quindi un bene pubblico individuale. Lo Stato in questo caso può lasciare al produzione al privato ma cura la distribuzione secondo logiche pubbliche non di mercato.
Da questa breve trattazione è facilmente desumibile che in una economia avanzata le alternative fra Mercato e Stato non sono dicotomiche. O l’uno o l’altro. Ma ci sono tante vie intermedie che richiamano il ruolo dello Stato non tanto nel produrre beni o servizi quanto nel regolarne la produzione e la distribuzione per raggiungere finalità di efficienza, di contrasto al monopolio e di distribuzione meritoria.
Per far questo occorre uno Stato qualificato. Perchè regolare è molto più difficile che gestire. E occorre avere capacità tecniche, indipendenza dal controllato e onestà istituzionale. Tutte cose che, in Italia, lo Stato ha dimostrato di avere in non sufficiente misura.
Ma la difficoltà nel regolare non può essere un alibi per riportare le lancette della storia indietro, ritornando allo Stato produttore. Abbiamo imparato che questa funzione è svolta male dallo Stato. Perchè riprovarci? Chissà se dentro a questo Governo c’è qualcuno che è in grado di ricordare che nella storia recente accanto ai fallimenti del mercato, sicuramente da tenere in considerazione e da recuperare attraverso il ruolo del pubblico nell’economia, ci sono stati grandi, immensi e drammatici fallimenti dello Stato che nessuno dovrebbe aver voglia di riprovare.
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