Chi aveva fruito delle “risorse aggiuntive “ create dalla legislazione razzista manteneva intatto il suo ruolo e il suo potere. Lo status del reintegrato veniva così a essere assai diverso e obiettivamente e accademicamente dal 1938. Non più, di fatto, titolare a tutto tondo di una materia, ma una sorta di aggregato su un posto destinato a scomparire. Cosa per nulla indifferente nel mondo accademico dell’epoca. Non a un atto di riparazione legale, ma alla forza accademica, politica, psicologica del singolo veniva affidato un possibile ritorno a pieno titolo.
Naturalmente a questo esito avevano contribuito le spinte della potente lobby accademica che non solo difendeva i nuovi equilibri venutisi a creare nei sette anni di persecuzione ma, con ciò, rifiutava ogni analisi delle proprie responsabilità. Bisognerà arrivare agli anni 1990 perché, tra non pochi contrasti, il mondo accademico cominci a “ risarcire” la memoria dei perseguitati e in tal modo a guardare, non sempre in modo limpido, dentro se stesso. Né questo lunghissimo oblio meraviglia. Esso ha riguardato – e per certe vicende riguarda ancora – la riflessione su se stesso dell’intero paese. Per quanto concerne l’università ha però anche un risvolto che per lo più la ricerca non ha messo in luce. Chi ebbe la cattedra per effetto dei provvedimenti antiebraici del 1938 ricoprì non di rado il suo ruolo per decenni formando allievi – magari per linee familistiche – che a loro volta, se divenuti cattedratici, ricoprirono per altri decenni i loro posti. Fin quasi a oggi. A Bologna – la cui situazione, come è ovvio, conosco meglio di altre – si è dato, ad esempio, il caso di un ordinario – non dirò né il nome né la materia – che ha insegnato fino agli anni sessanta mettendo in cattedra il genero che a sua volta ha “portato” – come suol dirsi – il cognato, figlio del docente che aveva avuto il posto in virtù delle “ leggi razziali” ( cosa, “ curiosamente”, tralasciata nella scheda che su di lui si può leggere nel sito dell’Alma Mater Studiorum) e questi ha insegnato fino agli inizi del secolo XXI, ricoprendo anche la funzione di preside di facoltà. La persecuzione dunque ha effetti che vanno ben al di là temporalmente del periodo di validità della legislazione antisemita.
Tutto questo però ancora non basta. Per capire davvero occorre allargare lo sguardo oltre il recinto accademico. Se le lobbies premevano le decisioni erano politiche. E fu appunto la politica che non seppe individuare la specificità della persecuzione antiebraica. Urgevano ben altri problemi dopo la disastrosa guerra voluta dal fascismo. Non v’ha dubbio: ma cosa sarebbe cambiato se la soluzione data dal ricordato decreto del maggio 1946 avesse assunto la soluzione inversa su cui mi sono interrogato? Esattamente nulla, ai fini del paese.
Come ho cercato di mostrare nel corso degli anni in svariati lavori il punto decisivo sta, per dirla sinteticamente e in modo apodittico, nel fatto che le grandi culture politiche che pervadevano il paese, dalla cattolica alla liberale alla socialista, erano tutte ancora permeate, sia pure in forme diverse, da un “pregiudizio” nei confronti degli ebrei, frutto di una storia più che millenaria.
Tralasciando la giudeofobia tradizionale del mondo cattolico si può e si deve sottolineare che tutte le grandi ideologie universalistiche otto-novecentesche implicavano la ineluttabilità della assimilazione. Un modo di guardare alla soluzione della “questione ebraica” – con cui concordavano del resto non pochi ebrei, soprattutto in Italia – del tutto legittimo, ma che nella concreta congiuntura storica degli anni ’30 e ’40 del Novecento continuava a nutrirsi del e ad alimentare il pregiudizio, reso più acuto dall’emergere nel mondo ebraico di una coscienza “nazionale”. Il pregiudizio di una separatezza cocciutamente perseguita dagli ebrei. Nell’immaginario collettivo questo voler restare nonostante tutto se stessi, “ separati” dagli altri veniva poi declinato nella “vaga, e un po’ conturbante, persuasione che dove ne entrava uno [di ebrei ] molti sarebbero per quel varco entrati“, come scriverà Gioacchino Volpe dopo la fine del conflitto mondiale, e all’indomani quindi della shoah, in un testo che si proponeva di essere assolutorio per il mondo accademico italiano. Ne derivava, insomma, l’idea – in cui rimase impaniato, a stare a una nota del suo diario del 21 febbraio 1945, anche Luigi Einaudi – che gli ebrei sempre e ovunque in combutta tra loro erano in concreto molto più potenti di quanto non potesse fare apparire la loro consistenza numerica, una “menzogna statistica” – termine usato nell’immediato indomani della ascesa al potere di Hitler in una lettera dalla Germania a Emilio Segré di Ettore Majorana – che nascondeva come, scrive Majorana, “in realtà essi dominano la finanza, la stampa, i partiti politici “.
Non si tratta, è bene dirlo con forza e chiarezza assoluta, di razzismo antisemita ma di un alcunché che comunque alimenta il sospetto, la diffidenza e costituisce un brodo di coltura per posizioni inquietanti. Ne sono prova vari testi postbellici di Benedetto Croce, come di Cesare Merzagora come di Adolfo Omodeo. Riproporrò alla vostra attenzione solo uno scritto di Omodeo, in sé significativo ma ancor più sintomatico perché, apparso nel 1945, è ripreso pari pari nella raccolta di suoi scritti Libertà e storia. Scritti e discorsi politici, edita nel 1960 da Giulio Einaudi nella celebre collana dei “ Saggi”. Né, d’altronde meraviglia. Mentre viene pubblicato il libro di Omodeo – l’anno della rivolta antifascista di Genova, dei morti di Reggio Emilia, dell’estate delle “ magliette a righe” – è, ad esempio, presidente della Corte Costituzionale Gaetano Azzariti – “tecnico di vocazione governativa”, come lo ha definito Nicola Tranfaglia, e in questa veste collaboratore anche del guardasigilli Palmiro Togliatti – che tra l’altro era stato presidente del Tribunale della razza.
Nel 1945 dunque usciva su «L’Acropoli», rivista diretta da Adolfo Omodeo, un articolo del direttore dal titolo La razza tedesca nel quale, all’interno di un testo di chiara e aspra denuncia del razzismo, gli ebrei, per dirla con le parole con cui Dante Lattes polemizzò con Croce, «finiscono coll’essere non tanto i martiri quanto i rei delle iniquità commesse contro di loro». L’illustre storico, amico intimo di Croce, scriveva infatti – e si noti il linguaggio – che per penetrare il «grave pericolo» della costituzione di una «razza tedesca» possono essere illuminanti «le vicende della razza ebraica». E “infatti il tragico è proprio la similarità fra il costituirsi della razza ebraica ai tempi di Esdra e di Nehemia e il razzismo tedesco culminante nell’abominio di questa seconda guerra mondiale”. Una «razza» quella ebraica che ebbe a costituirsi «soprattutto per l’idea di una consacrazione d’Israele a Dio e alla sua legge» donde «la paura di alterazioni nello spirito di fedeltà, importate da gentili sempre inclini a forme idolatriche» e “si accentuò soprattutto per una psicologia di popolo vinto, che sentendo la propria incapacità a trionfare per virtù politica sognava d’ottenere il successo a traverso il culto di un Dio onnipotente signore della storia e artefice del sistema della provvidenza. La concezione della razza è congiunta a un complesso di inferiorità politica e a un sogno messianico”.
Sebbene «l’ideale» del razzismo tedesco fosse privo di quanto i profeti d’Israele salvarono «entro le dispotíe orientali», vale a dire «un senso d’eguaglianza e di giustizia fra gli uomini che li piegava tutti al cospetto di Jahvè, il dio patriarca», simile è il meccanismo del costituirsi in razza nella Germania contemporanea e nell’antica Palestina. Allo stesso modo che i profeti d’Israele, idealizzando i ricordi del passato nomade nel deserto, riluttarono all’asservimento pieno degli uomini entro le monarchie dispotiche, rivendicarono una più alta giustizia, una purezza morale più conscia, e s’opposero alla distinzione rigida di classi e di caste, così il mito tedesco contrappose una fantastica gloria e vigoria primitiva ad una storia di successive decadenze. Non basta, nell’«esclusivismo» ebraico è annidata la forma più recente e maligna del razzismo, quello biologico. Un “pervertimento per cui l’ideale che tiene insieme i popoli (culto, costumi, opere collettive, tradizioni del passato cui si riconnettono i compiti del presente e le aspirazioni dell’avvenire) […] viene contemplato e materializzato nel puro fatto biologico del sangue sino all’ossessione che il nostro Giannone riscontrava nella letteratura ebraica per il fatto sessuale, i genitali, i prepuzi, il seme ”.
A parte la constatazione di una lettura non corretta di Pietro Giannone alle parole di Omodeo si può benissimo applicare l’amara ironia con cui Dante Lattes polemizzò con certe prese di posizione di Croce dalle quali si poteva arguire, scriveva, “che il nazismo ed i suoi degni precursori antichi, medioevali e moderni abbiano commesso le loro incommensurabili stragi contro gli Ebrei […] anche e perché [questi] si vantavano nelle botteghe, negli uffici, nei libri e dalle cattedre di essere il «popolo eletto» mentre il vero Israele da duemil’anni a questa parte sono i Cristiani”.
È ora possibile tornare con qualche arma analitica più puntuale all’inizio della storia. A parte altri episodi precedenti, la campagna che porterà all’emanazione dei provvedimenti antiebraici del tardo 1938 prende avvio con la pubblicazione nell’aprile del 1937 del libro di Paolo Orano Gli ebrei in Italia che a suo tempo Antonio Spinosa ritenne “ordinato” dallo stesso duce, cosa che Renzo De Felice pensava “ possibile, anche se, anche se è certo che Mussolini non lo approvò in pieno “. Notevole importanza assunse poi la riedizione, a cura di Giovanni Preziosi e con una nuova introduzione di Julius Evola, dei Protocolli dei “ Savi Anziani “ di Sion.
Nell’intervallo – più di un anno – che intercorre tra l’uscita del libro di Orano e l’emanazione dei provvedimenti antiebraici, mentre si scatena sulla stampa una forsennata campagna antisemita praticamente nessuna voce contraria si leva all’interno del paese, se si eccettua Benedetto Croce e qualche altro tra cui Tommaso Filippo Marinetti ed Ezio Garibaldi, il pollone fascista della discendenza dell’eroe dei due mondi. Era un fatto scontato? Un prevedibile effetto della situazione di mancanza di libertà degli italiani, e fra essi degli intellettuali italiani sotto il regime? Anche, ma non solo. Che sarebbe successo a un uomo potente come Giovanni Gentile, che – di certo – disprezzava teoricamente il razzismo, se avesse fatto sentire la sua voce? Del resto c’è da chiedersi il perché Mussolini promuova e permetta una così lunga campagna di stampa. Solo per “ preparare” gli italiani? O anche per qualche altro motivo? La risposta non è semplice né semplificabile. Tuttavia non c’è dubbio che Mussolini, avendo maturata ( o in via di maturazione) l’idea di una definitiva svolta razzista del regime, scateni e permetta una pubblica campagna antisemita anche per saggiare delle reazioni: della monarchia e del Vaticano in primis (con cui peraltro tratta, ovviamente, pure in via privata), ma non solo. Il Senato aveva dato qualche piccolo fastidio al regime al momento della discussione sui Patti Lateranensi. Si temeva che potesse darne anche in quest’occasione, tanto più che c’erano senatori ebrei, nove – secondo Michele Sarfatti – solo due dei quali, Salvatore Segrè Sartorio e Isaia Levi, nominati in epoca fascista. Non successe nulla, solo nel segreto dell’urna qualche voto contrario. Sebbene l’università fosse stata progressivamente normalizzata, specie col giuramento del 1931 che qualche ansia preliminare aveva procurato al regime, non è del tutto fantasioso ipotizzare che Mussolini volesse saggiare pure le reazioni di quel mondo e dell’universo culturale in genere. Come sarebbero andate le cose se ci fosse stata una robusta reazione dell’universo accademico e intellettuale?
Non ci fu. Per paura, furbizie, opportunismo, per il permanere nelle più profonde pieghe della formazione degli intellettuali dell’epoca, non solo italiani, di un spesso non consapevole ma radicato pregiudizio antiebraico. E anche per un altro motivo, strettamente connesso. Non di rado, prima della tragedia della distruzione degli ebrei d’Europa da parte nazi-fascista, le posizioni antisemite, anche forsennate, erano guardate con lieve ironia come espressione di una sorta di innocua mania. Ce ne offre una prova un grande intellettuale di famiglia ebraica, Piero Sraffa, che fra i primi, nel 1931, aveva visto i pericoli per gli ebrei della politica mussoliniana.
Il 29 ottobre 1924 muore Maffeo Pantaleoni, celebre economista e altrettanto celebre antisemita. Su richiesta di John Maynard Keynes, amico e protettore di talenti ebrei ma non esente da pregiudizi antiebraici, Sraffa ne scrive l’obituary per “The Economic Journal”. Narrandone la vita l’allora giovane economista, di già amico di Antonio Gramsci e collaboratore de “ L’ordine nuovo”, nota di Pantaleoni, che “a volte ebbe un concetto della politica che potrebbe essere qualificato ‘ cospirativo’ ed immaginava spesso di lottare contro complotti ebraici, tedeschi e, talvolta, inglesi. Per trent’anni fu il Don Chisciotte della politica italiana, un combattente ardente della cui sincerità e del cui disinteresse ci si poteva senz’altro fidare, e sarebbe ingiusto giudicare la sua opera dal particolare tipo di mulini a vento contro cui si scagliò”.
Anche in ciò, a ben vedere, c’era un inconscio “tradimento”: della ragione e del rigore con cui è necessario esaminare ogni posizione e ogni proprio giudizio a evitare che sia inquinato dal pre-giudizio.
Gli effetti furono terribili per le persone, a volte devastanti e con esiti, come nel caso di Enrica Calabresi, esiziali. E furono anche devastanti per il paese.
Avviandomi a terminare vorrei riprendere un argomento cui ho accennato all’inizio e che, per quanto abbia un aggancio non banale con il tema di oggi, è una questione, per così dire, generale. Di storia nazionale a tutto tondo.
Per quanto ho negli anni potuto constatare – e nella ricerca e nella mia ormai non breve esperienza di vita – le forze che hanno dato vita alla Repubblica, al di là dei proclami più o meno elettorali, nella sostanza si sono come ritratte di fronte al tema dell’Università, specie fino agli anni Sessanta. Se il tema è esploso e si è imposto all’agenda politica, determinando risposte via via più confuse, è da un lato per i tumultuosi processi di modernizzazione che hanno sconvolto il nostro paese nei 15-20 anni successivi al secondo conflitto mondiale e dall’altro, nel bene e nel male, per il sintomo più acuto prodotto da quegli sconvolgimenti, il ’68. Prima si ha la sensazione che se c’è un settore per cui è valsa la tesi crociana del fascismo come parentesi questo è l’università.
Di fronte a tale constatazione mi son chiesto e mi chiedo: se la specificità della persecuzione antiebraica fosse stata riconosciuta dandole di conseguenza una vera e adeguata attenzione politica e ponendosi quindi, ad esempio, il problema di recuperare in toto e davvero non solo le persone cacciate nel 1938 ma, con loro e attraverso loro, le esperienze che molti di quegli uomini, emigrando, avevano fatto ciò non avrebbe potuto avere un effetto anche su un possibile ripensamento della istituzione universitaria italiana? È questa, per me e dal mio punto di vista, una domanda per molti versi retorica. Perché il ritorno di forze intellettuali che rappresentavano una percentuale non piccola del corpo accademico avrebbe inevitabilmente inoculato nel nostro sistema una serie di esperienze nuove di organizzazione accademica, scientifica e didattica, vissute altrove in altri sistemi universitari da parte di uomini, spesso portatori di nuove idee scientifiche, che erano vissuti per lunghi anni in osmosi con ambienti culturali più aperti, più moderni, maggiormente mossi. Non è questo l’aspetto minore del danno prodotto da quanto si dette nel 1945 che rese definitivo il danno prodotto dalla persecuzione avviata nel 1938.
Il danno è l’argomento con cui vorrei appunto terminare. Un argomento facile a definirsi a parole ma di enorme difficoltà da indagare in modo concreto. Sulla cui ampiezza e profondità il tentativo più organico resta, mi sembra, il convegno linceo dell’ormai lontano 1990.
I “ ragazzi di Via Panisperna” si dispersero sotto i colpi della legislazione antisemita e per individuali scelte etiche ( né Enrico Fermi né Franco Rasetti erano ebrei ). I legami con la ricerca italiana tuttavia perdurarono tramite Edoardo Amaldi e altri. Arnaldo Momigliano, per passare a un campo del tutto diverso, mantenne dopo la guerra contatti e stretti legami con la Normale. Cesare Musatti fu costretto a rinviare di anni la pubblicazione del Trattato di psicoanalisi che però vide la luce all’indomani della Liberazione. Ciò stabilito, è pure vero che le leggi razziste del ’38 e quanto poi si dette nell’immediato dopoguerra allontanarono forze che altrove portarono a risultati di altissimo livello (penso, ad esempio, a Franco Modigliani e a Silvano Arieti); dispersero scuole ( come quella di Giuseppe Levi); produssero esili definitivi come quelli di Rodolfo Mondolfo; determinarono perdite irreparabili come quelle di Enzo Bonaventura morto in Palestina durante la guerra del 1948. Causarono la non nascita di carriere annunciate dagli studi universitari. Allontanarono dal paese numerosi talenti stranieri.
Il tema del danno è argomento di storia nazionale nel senso più alto, profondo e generale. E mostra senza possibilità di dubbio alcuno come la persecuzione degli ebrei voluta dal fascismo non sia un episodio concernente una minoranza. Né sul piano etico e politico né su quello materiale.
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