Non si parla di orizzonti programmatici per la Toscana dei prossimi 10 anni se non si assume come dato uno stato di crisi strutturale del nostro modello di sviluppo. I pilastri su cui si basava quel modello sono i seguenti: una rete di autonomie locali dotata di risorse umane e finanziarie; un sistema del credito basato su molti istituti, spesso sofferenti, ma radicati sul territorio; un sistema di distretti produttivi floridi; una rete di cooperazione e di consuetudine all’intercooperatività posta al centro di molti settori, dalla GDO all’edilizia, dai servizi socio-sanitari alla produzione artigianale, dai micro-servizi destinati alla PA all’agro-alimentare. Ognuno di questi pilastri è oggi, con qualche significativa eccezione, venuto meno. Le provincie sono svuotate di competenze, di risorse e di personale; i comuni hanno vincoli di spesa che rendono spesso impossibile il finanziamento diretto di iniziative infrastrutturali a sostegno di cittadini e imprese; gli istituti di credito, per consolidarsi, hanno dovuto aggregarsi o confluire in soggetti più grandi, perdendo contatto con il territorio; i distretti, con non più di tre eccezioni, sono al centro di una crisi produttiva, commerciale e occupazionale; la cooperazione, che era quasi la religione laica dell’economia nostrana, vede superstiti poche realtà mentre interi settori – si pensi all’edilizia – sono stati quasi integralmente cancellati.
Muovendo da questo assunto il riformista e il conservatore si distinguono lontano un miglio: il secondo vuole ritornare al mondo pre-crisi, il primo, dove altri vedono limiti, cerca varchi da percorrere. Che le autonomie locali, per avere risorse, debbano impegnarsi nella definizione di progettualità mirate è un bene. Che le banche siano sottratte a certe dinamiche relazionali è un bene. Che il modello del distretto, molto rigido, debba cedere il passo a un modello di rete d’impresa più flessibile è un bene. Che le cooperative, con il loro enorme valore aggiunto sociale, debbano proteggersi nel mercato e non dal mercato è un bene. È tempo di scrivere una pagina nuova su questi temi essenziali.
Il rapporto tra Regione e comuni deve perdere progressivamente ogni consuetudine convenzionale (nel senso di istituire partnership occasionali ‘per convenzione’): basta con le variazioni di bilancio regionali che finanziano arbitrariamente questo e quello. I sindaci e le amministrazioni devono ‘vincere’ progettando, non facendo visita all’assessore o al gabinetto del Presidente.
Gli istituti dii credito devono essere forti, sani e autonomi. E per questo non possono che essere più grandi e più strutturati. Se qualcuno rimpiange i bei tempi andati in cui bastava una chiacchierata con il direttore di filiale per ottenere un’apertura di credito rimpiange il tentato omicidio del sistema bancario italiano. E per quanto vada di moda nutrire sentimenti ostili nei confronti delle banche, bisognerà ricordare che sono le banche a permettere a chi ha idee, spirito di sacrificio e talento di fare impresa. E ricordare altresì che solo in presenza di una vivacità finanziaria del mondo del credito può darsi una sua vivacità commerciale. Insomma non solo le banche non sono cattive, ma non lo sono nemmeno quando si attivano per ottenere utili nel mercato finanziario. Perché sono quegli utili a generare liquidità per il mercato commerciale. È semmai necessario capire come un sistema del credito sano, aggregato e moderno possa mantenere un rapporto di prossimità con i bisogni dei territori, che devono e possono essere letti con un codice che non sia solo quello degli standard oggettivi, ma che al contrario sappia incamerare la grammatica delle economie locali. In questo quadro si inserisce il tema della garanzia pubblica-privata e di Fidi Toscana. Si tratta di uno strumento a mio avviso ancora attuale, capace di governare il commercio tra domanda e offerta creditizie in modo autonomo dalla politica ma al contempo sottoposto a indirizzi di massima che sono legittimamente indicati dalla rappresentanza democratico-istituzionale, unica titolata a parlare in nome dei cittadini toscani.
I distretti sono in via di estinzione. Quelli ancora forti, lo sono perché sono forti e autonome le aziende che vi operano e perché hanno smesso di fare, strictu sensu, i distretti, assumendo forme organizzative più flessibili ed allargandosi ad altre esperienze imprenditoriali extra-regionali. Io da tempo ritengo che il modello del distretto sia in parte da superare. Mi spiego: il cuore del sistema distrettuale immaginato da Giacomo Becattini, il progetto di una messa a sistema della piccola e media impresa locale per essere forte sul mercato senza smarrire i propri elementi culturali nativi, è ancora di grandissima e irremovibile attualità. Il modello organizzativo è però ormai troppo rigido, appartiene a una sitassi sociale inadeguata alla rivoluzione tecnologica del XXI secolo. Il modello deve essere quello della rete: un sistema di relazioni plurime in cui a parità di capitale umano si moltiplica il capitale sociale. Lo sta mettendo in atto molto bene, pur chiamandosi ancora ‘distretto’, il DITECFER pistoiese, in cui la relazione tra le imprese locali si inserisce in una rete di relazioni con imprese di tutta Italia, intercettando inoltre altri bisogni come quello della formazione e della domanda occupazionale da un lato, e dell’offerta lavorativa dall’altro (significativa la felice esperienza dell’Istituto Tecnico Superiore di Pistoia).
Infine, due parole sulla cooperazione. La cooperativa è e resta la più moderna e innovativa tra le forme d’impresa. Il modo in cui nella filosofia cooperativa si incontrano le esigenze protettive-mutualistiche e la missione imprenditoriale è qualcosa che non si trova in nessun altro sistema. Ed essere patria per eccellenza della cooperazione è motivo di vanto per l’Italia (e in particolare per regioni come la Toscana). Ma qui finisce la buona novella. Nel tempo, e sempre più spesso, il sistema cooperativo (con qualche virtuosa eccezione) è stato inteso come forma di protezione dal mercato, e non nel mercato: più che un far fronte comune nel nome della solidarietà, un esser più uguali degli altri come nella Fattoria degli animali di Orwell. Ciò ha avuto due significative manifestazioni. La prima è la degenerazione del concetto, vorrei dire del ‘mito’ della intercooperatività: da forma di solidarismo strategico tra le imprese cooperative, è divenuto criterio legittimante situazioni economicamente non ammissibili. L’esempio tipico è quello dell’impresa A che vive solo delle commesse della più grande impresa B. B si trova così ad assumersi il rischio d’impresa di A senza averne il controllo. A non cresce e non si guadagna mercato, non compete e non si innova. Il risultato, quando va bene, è che B decida di comprare A, così insieme al rischio ha anche il controllo e la pianificazione d’impresa; quando va male, B si trova a essere non più soddisfatto dei prodotti di A, che è costretta a chiudere, dopo interminabili picchetti con sfilate di molti miei colleghi. La seconda manifestazione si ha quando cooperative o reti cooperative non competitive sul mercato pretendono lavoro, anche dal sistema pubblico, solo perché cooperative. I risultati sono pessimi servizi per cittadini e imprese, opere mal progettate e mal (o talvolta, mai) realizzate, discredito sul mondo cooperativo e sui suoi – presunti o reali – legati di amicizia politici. In Toscana dobbiamo ripensare, forse daccapo, la cooperazione e innanzitutto le premialità che la politica può mettere in campo per favorirne lo sviluppo. In primo luogo, la cooperazione deve avere una caratteristica: deve essere mutualizzazione dell’impresa e del lavoro, non del capitale. I soci di una cooperativa devono esser imprenditori e/o lavoratori, devono tirar su la serranda al mattino e tirarla giù la sera. Altrimenti lo spirito nucleare della cooperazione viene meno: resta il cum ma non c’è traccia dell’operare. In secondo luogo la cooperazione deve trovare autonomamente spazi di mercato, vincendo sul piano della qualità e dell’efficienza, e trattenendo i vantaggi sociali del modello cooperativo nel backyard della propria solidarietà interna, quella per cui nessuno viene lasciato indietro e un passo falso può essere compensato dal balzo in avanti di un altro cooperatore. Solo dati questi presupposti può essere avanzata una nuova policy pubblica sulla cooperazione, tesa anche a premiare il social business in senso lato e la cooperativa in senso stretto.
Mauro grassi
Ottimo articolo. Sul distretto, così per curiosità, quando ero all’Irpet scrissi un articolo su Rivista di politica Industriate di Prodi sul passaggio dal distretto Becattiniano alle imprese leader di distretto. Becattini non approvò. Ma l’idea era quella qui avanzata da Baldi. Sono d’accordo.
Sergio Giusti
Su, certo, avete ragione ma forse era stato sempre così… Anche I distretti di cui ha scritto Becattini, si findavano su imprese leader che allora poteva no contare su una filiera locale adesso non più, ma le piccole imprese erano quasi sempre parte di un indotto quasi mai operate sul mercato sul quale si muove vano le imprese leader/commerciali.
Tiziano Ghelardi
Articolo buonissimo, di un livello superiore. Voglio solo aggiungere che sarà necessario un approccio svincolato da ideologie non solo sul fronte del cooperativismo ma anche su quello delle infrastrutture che potrebbero essere il volano di un nuovo sviluppo
Livio Giannotti
L’articolo di Baldi sollecita qualche considerazione di cui qui mi limito ad indicare i titoli:
L’oleografia del “distretto industriale” va superata con strumenti di accompagnamento alla fusione delle imprese, meno imprese ma più forti patrimonialmente e tecnologicamente. Per questo sarebbe necessario avere una “Politica Regionale” e…. almeno un Assessore all’Economia capace di coinvolgere i soggetti necessaria per avviare un processo in forte ritardo.
Per quanto riguarda il Credito constatato che la Toscana, con il disinteresse generalizzato degli amministratori regionali e locali, non ha più un centro decisionale finanziario di riferimento territoriale, che di Fidi Toscana dopo improbabili gestioni non se ne comprende la missione; che SICI su cui riponemmo tante aspettative è un progetto che andrebbe ripreso seriamente con le competenze necessarie.